TRAMA
Cina IX secolo. Nie Yinniang torna dalla sua famiglia dopo alcuni anni passati in esilio. Educata da una monaca che l’ha iniziata alle arti marziali, è divenuta una spietata assassina la cui missione è eliminare i tiranni. La sua maestra le affida la missione di uccidere il proprio cugino Tian Ji’an, governatore dissidente della provincia militare di Weibo. Nie Yinniang dovrà scegliere se sacrificare l’uomo che ama o rompere per sempre con “l’ordine degli assassini”.
RECENSIONI
'Bello è bello, però non ci ho capito niente...'. Difficile immaginare una reazione più stupida all'uscita da un film. Eppure, dopo entrambe le proiezioni stampa di Nie Yinniang (The Assassin), questo è ciò che si leggeva in faccia a più o meno tutti - o meglio, a tutti coloro che per una ragione o per l'altra si esimevano dal dirlo a chiare lettere. Non che la trama sia particolarmente intricata: ci sono giusto due o tre cose da capire, ma Hou non fa nulla (e, come vedremo, a ragion veduta) per assicurarsi che lo spettatore le recepisca, e colloca le informazioni narrative in posizione clamorosamente defilata, appena percettibile. Esse si riducono più o meno a quanto segue. Nella Cina del nono secolo, Nie, una killer professionista alle dipendenze di una religiosa, viene incaricata di uccidere un notabile corrotto, ma una volta infiltratasi nel suo palazzo lo risparmia, intenerita dal bambino che egli tiene in braccio. Per punizione, viene mandata a uccidere il cugino Tian, governatore di Weibo, provincia autonoma ai margini dell'Impero. Anni prima, Nie, diretta discendente di colei alla quale si dovette l'indipendenza di Weibo, era la sua promessa sposa; insieme, avrebbero dovuto governare quella provincia - ma le pressioni dell'Impero resero inevitabile un compromesso politico che consistette, ahilei, nel suo allontanamento. È in quel frangente, appunto, che venne affidata alle cure della religiosa. Naturalmente, Nie non ha alcuna voglia di uccidere Tian. Anzi: parte sua sponte per difendere (e il suo aiuto si rivelerà decisivo) un contingente incaricato di proteggere un consigliere mandato al confino perché troppo moderato; inoltre, sventa indirettamente un oscuro complotto di palazzo che passa per la dissimulazione che una delle concubine del governatore, incinta, non lo sia. La sua strana renitenza, il suo misterioso coincidere di attività e passività, darà i suoi frutti: la religiosa deciderà che nell'attuale congiuntura (è in corso una rovente crisi politica che coinvolge Weibo, l'Impero e altre province più o meno indipendenti ai suoi confini) è più opportuno che Tian non venga ucciso.
Tutto questo, il film non si cura affatto di chiarirlo: solo a una seconda visione si cominciano a unire i puntini. Ma in verità è difficile stabilire se ciò accada per insufficiente chiarezza, oppure a causa del fatto che lo spettatore, dal primo minuto all'ultimo, è letteralmente e irrimediabilmente abbagliato, se non addirittura irretito, da una bellezza visiva e formale davvero clamorosa. Nie Yinniang è un film di arti marziali assolutamente e gloriosamente unico. Non si era mai visto prima un wuxiagirato in questo modo. Gli scontri tra i personaggi esplodono perlopiù all'improvviso per spegnersi nel giro di pochi secondi; alcuni di loro, dopo una mezza dozzina di inquadrature ravvicinate si risolvono in campo lunghissimo, appena visibili da dietro gli alberi, o addirittura fuori campo appena al di là del quadro. Più in generale, Hou si limita a sfogliare una manciata di punti di vista diversi sull'azione violenta in corso con un montaggio mai veloce, senza per questo feticizzare la long take, e con un grado di permeabilità rispetto al fuori campo sempre piuttosto elevato. Per il resto, resta decine e decine di secondi a contemplare, con la cinepresa che si muove spesso impercettibilmente, sempre come a lato rispetto al dispiegarsi della successione degli eventi, una donna cui vengono sistemati i capelli, un uomo che pulisce uno specchio, la preparazione di un bagno caldo, gente che cammina, Tian che gioca con il figlio, una conversazione spiata da dietro tendaggi semitrasparenti, l'incedere di un gruppo di uomini in una galleria completamente oscura alla sola luce di una torcia...
A colpire sono soprattutto i colori, l'opulenza cromatica degli interni come la pressoché irreale intensità coloristica degli esterni. Ma sarebbe inesatto percepire tutto questo splendore, e la metodica lentezza con cui ci viene parato davanti, nei termini di una mera attitudine contemplativa. Si tratta, piuttosto, del tentativo miracolosamente riuscito di dare corpo a una sorta di forma alternativa dell'azione: non, come siamo portati tradizionalmente a concepirla, un flusso ordinato che si dispiega dentro al vuoto, ma una sorta di modulazione dinamica adiacente, anzi proprio aderente al vuoto stesso, un movimento non tanto dentro al vuoto quanto insieme al vuoto. Tian è tutto uno 'squassar lance' (come diceva Carmelo Bene per designare Shakespeare e la vanità del potere come di ogni azione progressivamente e narrativamente orientata, ciò che le sue opere riuscirono a eternare come null'altro), laddove Nie è una sorta di grandezza negativa, un nulla che cammina e uccide, condannata dal suo esilio primordiale a una forma di potere che confina pericolosamente (ma anche proficuamente) con l'impotenza e a una forma di azione che confina pericolosamente (ma anche proficuamente) con l'inazione. E vista la platealità del parallelismo tra una storia del genere e il contemporaneo (Weibo è con ogni evidenza una Taiwan del passato alle prese con l'ombra minacciosa di un potentissimo Impero cinese alle calcagna), l'esplorazione di questa zona grigia assume senza dubbio connotazioni immediatamente politiche: solo lì può essere cercata la chiave dell'autonomia, del rapportarsi a un potere troppo forte senza farsene schiacciare, senza sottomettersi, ma senza nemmeno stare a mostrare vanamente i muscoli e spendersi in una prova di forza che non si può vincere.