Sala, Supereroi

THE AMAZING SPIDER-MAN

TRAMA

Peter Parker, studente tendenzialmente sfigato, viene punto da un ragno e, sì, insomma, si sa.

RECENSIONI

Il concetto di inutilità, applicato – diciamo – all’arte, fa decisamente sorridere. Un film inutile. Che constatazione penosa. Eppure, sarà l’età, The Amazing Spider-Man mi sembra pensato proprio per dare consistenza cinematografica all’odioso aggettivo, a cominciare dalla sua funzione reboot-esca. Tutto è iniziato con Batman Begins, Nolan che si getta nell’agone cinefumettistico e va subito al dunque, afferma la propria autorialità, azzerando precedenti nobili – Burton – e meno nobili – Schumacher - per (re)iniziare la saga del tormentato eroe DC. Come, poi? Mutuando la pratica del reboot, di genesi proprio fumettistica (Crisis on infinite earths, 1986, che azzerava le contraddittorie e obsolete continuity DC per crearne di nuove), traslandola al cinema partendo proprio da Batman anno uno (di Miller, 1987, il primo Batman post-crisis) e, non ultimo, tentando di risollevare le sorti di una tetralogia filmica sull’orlo di vari tipi di baratro (la svolta kitsch di Schumacher, sbagliata da tutti i punti di (s)vista). Un reboot con un perché, insomma. Che ha fatto proseliti.

Dall’agente 007, a Nightmare al Pianeta delle scimmie, passando per l’Incredibile Hulk, svariate saghe hanno avuto il loro più o meno giustificato riavvio. Fino a Spider-Man. Ora, per dire, il fallimento del non-troppo-autoriale-ma-non-abbastanza-“commerciale” Hulk di Ang Lee può aver giustificato la prematura ripartenza di Leterrier, ma cosa dire della trilogia di Raimi? A scanso di equivoci: non stiamo parlando di lesa maestà, né vogliamo trattare i tre uomini ragno raimiani come capolavori intoccabili, ma solo dire che: avevano funzionato. Avevano colto gli aspetti salienti del fumetto, trattandoli in maniera “adulta”, come si diceva una volta, e avevano anche incassato un bel po’ di soldi. Senza contare che contenevano già una “formazione” del supereroe ab initio, con genesi fondativa, origine del costume e così via (cosa che, per tornare a Batman, mancava invece ai film di Burton, il quale aveva deciso di inserire l’uomo pipistrello in un contesto anti-storico, presentandolo come icona ready made). Dunque, perché Webb? Non siamo di fronte a una crescita seriosa e autoriale della serie, non si approfondiscono aspetti fondanti della fonte (anzi), non si va a ricercare uno sfruttamento economico proficuo di un capitale immobilizzato (Raimi, come già detto, anche al botteghino aveva detto la sua).

Che si fa? Si gira una specie di remake semplificato (ci sono molte omologie con i primi due capitoli di Raimi), più teenageriale che twenty-something oriented, con una prima parte che sembra proporre, strutturalmente e tematicamente, una condensata TV series per liceali, un successivo sviluppo narrativo agile ma elementare, gradevolmente prevedibile in tutti i suoi possibili snodi, scandito e vivacizzato da un paio di sequenze action ordinarie e ordinate, diremmo “confortevoli”, e condito infine da qualche esca (anche post-finale) che funge da innesco per gli (in)evitabili sequel. Il resto, gli accenni al discorso sul potere/responsabilità, l’accento sul super-eroe umano e riconoscibile (Spider Man agisce spesso senza maschera), sono tutte cose già dette – meglio – da Raimi. Con una differenza: la preoccupazione di Webb-Venderbilt-Sargent-Kloves di non lasciare il pubblico troppo sulle spine, con gli elementi potenzialmente “sgradevoli” (la fine forzata della Love Story Peter Parker – Gwen Stacy) che durano un batter di ciglia, fulmineamente riconvertiti a coccole per lo spettatore, che esce dalla sala felice e sereno, con tutte le tessere del mosaico dove devono essere. Il 3D, invece e infine, potrebbe fungere da esempio di come la stereoscopia sappia, spesso, chiarire oltre ogni ragionevole dubbio il concetto di “superfluo”. Anche se, forse, “inutile” è l’aggettivo giusto.

Un po’ reboot, un po’ prequel della pellicola di Sam Raimi (Spider-Man, 2002), anche se i maligni direbbero che riparte da zero solo per non perdere i diritti sull’Uomo-Ragno che, se non sfruttati, sarebbero passati dalla Columbia alla Marvel Production. Sam Raimi non era disponibile per un quarto capitolo della saga e la produzione decide di ricominciare da zero, dalle origini, tirando via sui focus della pellicola citata (la scelta del costume, gli allenamenti) e raccontando ciò che ometteva (in una parola: il personaggio di Gwen Stacy). Se Raimi riorganizzava gli ingredienti restituendo un lavoro personale, i tre svogliati sceneggiatori di quest’opera ricalcano il racconto degli albi a fumetti, emulando la scelta della produzione di omaggiare il look anni sessanta/settanta. Cambiando alcuni eventi, però, si insinua prepotentemente un tema differente: l’eredità dei padri, con Peter Parker che si trasforma nel ragno oggetto di sperimentazione del genitore, e Gwen Stacy che si fidanza con un tutore dell’ordine come il suo genitore. Anche il target di pubblico, rispetto a Spider-Man, cambia, è meno “adulto”, più teenager - oriented, sia nello spirito sia nel casting, ritraendo Parker solo al liceo, sfruttandone tutti gli stereotipi relativi e finendo dalle parti dei fantasy - horror seriali stile Teen Wolf. Chiamare alla regia Marc Webb, romantico autore di 500 Giorni Insieme, faceva sperare in un’operazione filmica capace di restituire una delle più belle e strazianti storie d’amore a fumetti, quella con Gwen Stacy (Emma Stone ideale per la parte), ma esigenze mercantili di saga hanno aggiustato il tiro, non la chiudono (lo farà il secondo capitolo, nettamente migliore), la modificano (Gwen odiava l’Uomo Ragno, non suo padre, e non ne scoprì mai la vera identità) e la riducono a qualche patema, preoccupandosi solo di trovare un valido corrispettivo al famoso bacio rovesciato di Raimi: la presa al lazzo di ragnatela. All’opera manca personalità, quella infusa da Raimi che, da fan del fumetto, lo piegò al racconto cinematografico rispettandone lo spirito se non la lettera, restituendo, soprattutto, un Parker credibile (qui schizofrenico, passa da imbranato a impiccione, da stronzo a umorista in battaglia ed eroe romantico). Migliorano, per evoluzione tecnica, i superomismi: il 3D, abbastanza inutile per tutta la durata, diventa fondamentale nelle scene in soggettiva dell’Uomo Ragno che vola o precipita fra i grattacieli di New York. Anche la tuta è più realistica e “invisibile” nei passaggi in animazione digitale.