Drammatico, Recensione

TEZA

Titolo OriginaleTeza
NazioneEtiopia/Germania/Francia
Anno Produzione2008
Durata140'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Trent’anni di storia di un paese e di uno dei suoi tenaci “resistenti”.

RECENSIONI

L’immagine filmica di Teza è spessa, densa, come se ogni sequenza fosse forzata da un sovrappiù di sensi che chiede spazio; nel racconto di Gerima c’è sempre un “di più”, ogni dato evoca un non-dato, qualcosa che c’è dietro, oltre: una giustificazione apparente che a sua volta chiede altra giustificazione, in una ricerca di Senso infinita che si avvita sempre su sé stessa. Presente e passato, qui e altrove, Altro e Io: tutto sembra essere intimamente collegato, come un continuum che è quasi un flusso di coscienza, strutturato su una forma insieme parabolica e circolare, in cui punto di partenza e punto di arrivo si sovrappongono in una stasi immobile, priva di prospettiva di futuro, e allo stesso tempo sono separati da uno scarto entro cui si situa il percorso tutto interiore del protagonista da un ritorno solo fisico a un altro pienamente umano. La sceneggiatura di Gerima è un capolavoro di equilibrio tra la linearità del tradizionale bildungsroman e un prodotto nuovo che scuote le coordinate spaziotemporali; difficile parlare di progressione lineare della trama, ma difficile anche negarla del tutto: districandosi tra le maglie di una temporalità franta si sviluppa un percorso di redenzione da un dolore che si dà nel suo essere senza Logos, non solo propriamente causale, ma nel senso più ampio, dunque anche spaziale e temporale[1], a un dolore che prende consapevolezza di sé tramite il ritorno del passato che, dispiegandosi nella sua linearità e innestandosi tanto sul passato precedente, infantile, e su un altro ancora, mitico/ancestrale, quanto sul presente, permette di (ri)trovarsi, recuperando quella più ampia circolarità in cui tutto torna e in cui ogni idea di progresso si disperde nelle immensità di un tempo senza inizio né fine. Teza è allora il racconto di un temps retrouvé, quello del Mito che ingloba dentro di sé la Storia[2], all’insegna del quale si celebra il rinnovato equilibrio tra Antropos e Cosmos in una dimensione di fattualità (e amore) presente che è l’unica possibile. Emblematico a questo proposito il dialogo tra Ahnberber e il maestro di scuola che trova il senso del suo lavoro negli sguardi affamati di conoscenza dei ragazzini, dunque nel lavoro in sé, non in vista di un dopo che sa già essere senza speranza; Ahnberber recupera tutto ciò contro le ideologie e l’idea a esse intrinseca di progresso e rifiuto del presente, contro quel «tutto guerra, sempre e solo guerra», nel quale sembrano riecheggiare le parole di Kurtz sull’orrore in Apocalypse Now, prodotto dall’assurda lotta a chi è il vero socialista che è l’eterno ripetersi di una barbarie intima dell’uomo. In questo senso Teza è anche un film d’amore: l’amore per l’uomo e la vita nel suo “qui e ora” come unico possibile senso; quell’amore, quel bisogno di aiutare[3] di cui Ahnberber prende a mano a mano consapevolezza nel suo doloroso percorso di vita e ricordo e su cui fonda la sua rinata esistenza[4]. Una parola ancora la merita la capacità di Gerima di creare personaggi vividi e potenti: tutti le figure secondarie emanano una profondità dolente (la mamma, le due compagne di Ahnberber, la moglie tedesca di Tes) e contribuiscono all’ottima riuscita complessiva. Peccato per il doppiaggio italiano che quasi mai riesce a restituire quella forza evocativa della parola, propria della versione originale e nelle inquadrature sempre così evidente.

[1] Di qui gli episodici ritorni di frammenti di passato in forma di ricordo/rappresentazione come di presenza fisica nel presente; di qui anche il montaggio frenetico in cui spesso a una sequenza audio continua ne corrisponde una video spezzata, come durante i riti di esorcismo il bellissimo primo piano del protagonista.
[2] Quanti e quanto complessi per noi i riferimenti a un patrimonio culturale e religioso per il quale tutto è già, anche il da venire; e mi riferisco alla simbologia del fuoco e del drago.
[3] Sull’aiuto come sostituirsi a chi soffre Gerima insiste molto anche sul piano visivo: Ahnberber, soprattutto nella prima parte, vede sé al posto degli altri; questo senso di partecipazione al dolore è reso esplicito quando, dopo l’uccisione di un ragazzino Ahnberber dice alla mamma: «oggi è stata uccisa la mia infanzia»
[4] I riferimenti sono molto precisi: innanzitutto il figlio e l’amore privato, prima respinto e poi accolto; poi il senso di “missione”, prima utopico nel fuggire all’estero, poi concreto e tutto “fatti” con la sua attività di medico di base e insegnante elementare; come se Ahnberber imparasse ad ascoltare le ossessive ed esplicite richieste di aiuto che la comunità gli fa.

Vitale, debordante, generoso affresco storicopolitico di un paese decolonizzato, l’Etiopia, Tezaha una sua straordinaria e paradossale forza prima di tutto espressiva: il regista riesce ad attualizzare e vivificare stilemi e simboli della cinematografia mondiale degli anni ’60 e ’70 (il cinema delle “nuove onde”). Il suo non è un omaggio, il suo è un film degli anni ’70: dall’immagine sgranata alla proliferazione di carrellate ottiche, dalla costruzione narrativa frammentaria, discontinua e analettica (che ricorda molto da vicino il film di Dalton Trumbo Johnny Got His Gun: il ricovero in ospedale come evento dinamico e “mnemogenetico”) a soluzioni di montaggio parallelo à la Eisenstein (l’aggressione nazifascista/la mattanza di un bue). In più, l’autore “arcaizza” le vicende del medico Anberber, connettendole al substrato mitologico/culturale della sua terra: la sua storia diviene così la parabola di un popolo che cerca di reimpossessarsi di una cultura che un secolo di colonizzazione non è riuscito a cancellare. Una delle opere migliori viste in concorso.