TRAMA
Alla fine degli anni Novanta, a Nalchik, Ilana ha una relazione problematica con la famiglia ebrea ortodossa. La situazione diviene ancora più drammatica quando il fratello minore della ragazza, David, e la sua fidanzata vengono rapiti.
RECENSIONI
Dal Festival di Cannes 2017
E alla fine, anche in un’edizione disastrosa come questa è arrivata la scoperta. Di Kantemir Balagov sentiremo indubbiamente parlare ancora [Balagov era in concorso al Festival di Cannes di quest'anno con Beanpole - NdR]: il suo esordio Tesnota esibisce una maturità che è difficile immaginare appartenga a un cineasta appena ventiseienne.
Siamo nel 1998, nella repubblica autonoma di Kabardino-Balkaria (Caucaso settentrionale); laddove, tuttavia, un cineasta meno coraggioso avrebbe scelto un qualche conflitto tra lo stato centrale (qui completamente assente) e questa etnia ai margini, Balagov volge lo sguardo ai margini dei margini: la comunità ebraica in seno a una popolazione locale prevalentemente musulmana. Anzi: Balagov si concentra sui margini dei margini dei margini, ovvero sulla giovane Ilana, l’outsider della famiglia. Ad essere decisivo è il fatto che Ilana non è la pecora nera della famiglia per estraneità rispetto a quest’ultima, ma per iper-identificazione: mentre tutti la spingono a trovarsi un lavoro fuori, lei insiste a restare nell’officina meccanica del padre. E come se la cosa non fosse già abbastanza incestuosa, la vediamo nelle prime scene in atteggiamenti particolarmente intimi con il fratello. Infatti se poco dopo si butterà tra le braccia di un coetaneo locale, sarà più che altro come reazione alla promessa di matrimonio tra lui e la figlia di un’altra famiglia ebrea dei dintorni.
Da qui in poi la trama procede un po’ a spintoni (il fratello viene rapito; di punto in bianco a Ilana viene appioppato un matrimonio combinato; e così via), ma non è lì che va cercato il film: esso, piuttosto, è tutto nel percorso di auto-svuotamento del godimento incestuoso intra-famigliare, eccedente la Legge ed estraneo ad essa, che Ilana vive sulla propria pelle. In fondo, ciò a cui assistiamo è un tradizionale percorso di formazione “edipico”, che un personaggio attraversa per staccarsi dal nucleo famigliare originario e formarne un altro al di fuori. Solo che questo personaggio, non è il protagonista. Non è Ilana, ma il fratello di Ilana. Il punto di vista del film, insomma, non aderisce a questo passaggio al di là della fatale soglia; esso invece rimane al di qua di essa, appresso a Ilana, che invece rimane strenuamente attaccata al godimento incestuoso intra-famigliare fino a dissolverlo completamente, fino a vederselo squagliare come sabbia tra le mani (come a disgregarsi completamente è, via via, qualsiasi ipotesi di una qualche appartenenza comunitaria). È ciò che vediamo con impressionante flagranza nella scena della discoteca, verso il finale, quando per svariate interminabili dozzine di secondi vediamo Ilona cercare questo godimento – e non trovarlo. Dunque non la regolare traiettoria edipica, ma il suo controcampo, da dentro quella sostanza, aliena da legge e linguaggio, che dovrebbe da questi essere regolato, e che invece si scopre affetta da un’impasse che è intrinseca e non estrinseca. Arrivando al limite estremo di questa impasse, Ilana si fa carico di un sacrificio solo grazie al quale il fratello riuscirà a entrare nell’ordine regolare della legge, del linguaggio – insomma della società.
Ma la scena chiave, in questa medesima ottica, è quella ancora più lunga, e a rigore ingiustificata narrativamente (ma perché è giustificata su un piano diverso, e superiore), in cui una traballante videocassetta visualizza su uno sgangherato schermo televisivo uno snuff movie in cui combattenti ceceni sgozzano prigionieri come ridere: nulla, nemmeno il porno (che pure è un buon secondo) può manifestare al pari dello snuff il fatto che l’esteriorità assoluta rispetto a legge, linguaggio e ordine societario, quella violenza troppo intensa e troppo intollerabile affinché possa da essi venire imbrigliata, è invece ostacolata da un limite che è tutto interno, da un intimo schermo che ne sconfessa la presunta immediatezza.
A interpretare Ilana con allarmante intensità è Darya Zhovner, che Balagov tratta come un millimetrico sismografo di questo progressivo venir meno (e scontrarsi con il proprio limite interno) dell’incestuoso godimento inter-famigliare, che lei andrà a cercare anche fuori casa in un amorazzo con chi, appunto, sembra tenere un piede nella comunità senza mai sposarne l’identità (né coi russi, né coi ceceni, né con gli ebrei). Se il talentuoso ventiseienne riesce a passare compiutamente il testimone alla propria attrice, è grazie al suo dominio del tempo e dello spazio: del primo, grazie a un’ineccepibile consapevolezza di quando accelerare e quando rallentare (in modo da lasciare spazio alla partitura recitativa, come alla tensione narrativa), del secondo, lavorando sul carattere claustrofobico e soffocante dei luoghi (Closeness è l’appropriato titolo inglese).
È infatti in un angusto corridoietto, in mezzo a scatoloni e cianfrusaglie, senza nessun agio, e lontano dalla macchina da presa, che si consumerà l’unico rapporto sessuale tra Ilana e il suo provvisorio innamorato. Lì, come in tutto il film, ciò a cui assistiamo è la brillante e sofferta confutazione “a contrario” di qualsiasi consistenza autosufficiente del godimento.
