Drammatico

TERRAFERMA

TRAMA

Un’isola al largo delle coste siciliane. Il giovane Filippo vive con il nonno pescatore e la madre vedova. Un giorno…

RECENSIONI

La superficie del mare solcata da un'imbarcazione: questa immagine apre e chiude Terraferma. Ma se all'inizio la barca di nonno Ernesto è una macchina di morte, che schiaccia, ripresa con una contre-plongée, l'azzurro dell'acqua, avvinghiando le sue prede, al termine del racconto Filippo ne fa uno strumento di salvezza, frammento di luce nel buio di una notte reale quanto metaforica, presagio di un futuro denso di minaccia, ma che, come tutte le speranze residue, non ammette di essere messo in discussione. Tra questi estremi si situa la parabola del protagonista e della sua famiglia, divisa fra l'ansia di modernità, il bisogno di sopravvivere, la voglia di non rinunciare al passato. Centrale e vitale nelle sue contraddizioni è il personaggio della madre, Giulietta, ancora giovane ma già segnata dalla vita, costretta a ridurre i propri ricordi a souvenir per turisti, spinta dalla necessità, ma più ancora dall'insoddisfazione e dall'ansia per il futuro del figlio, a cercare fuori dall'isola il fantasma di un futuro migliore, o forse soltanto più facile. L'incontro con Sara, una donna strappata al mare e letteralmente riportata in vita assieme ai suoi figli, renderà più incerto l'avvenire della famiglia, permettendole al tempo stesso di (ri)trovare la cieca volontà di combattere contro un destino di morte che non ammette eccezioni, neppure quelle contemplate dalle immortali, misericordiose leggi del mare (non si abbandona un naufrago, chiunque sia).Incoronato dal verdetto veneziano (Premio Speciale della Giuria), Crialese forgia un racconto per immagini di smisurata ambizione (c'è tutto: l'immigrazione clandestina e l'emigrazione interna, la violenza di guerre permanenti che si combattono alle nostre porte e quasi a nostra insaputa, il turismo che sfregia la tranquilla maestà di tradizioni secolari, la crisi economica e sociale di borghi devastati dalle logiche dell'urbanizzazione selvaggia, la presenza di uno Stato avvertito come ostile e disumano, l'assenza della figura paterna risarcita dall'equilibrio geronto-matriarcale della stirpe), sostenuta da uno sguardo registico in parecchi punti - ma non sempre - all'altezza della situazione. Dove il film gioca la carta del lirismo (Giulietta e la tappezzeria, gli immigrati che approdano alla spiaggia privata, la partenza di Maura), gli effetti sono da telegiornale all'ora di pranzo, malgrado la sobrietà delle intenzioni, e altrove (ad esempio nel corteo in memoriam che segue il prologo in mare) l'elemento pittorico è tanto schiacciato dalle esigenze del racconto (presentare i personaggi e definirne i rapporti) da ridursi a elegante cartolina. Vi sono poi scene, come quella del mappamondo e più ancora quella, quasi omerica, dell'adunata dei pescatori, in cui la didascalia si impossessa a tal punto del film da rendere concreto il rischio della fiction da grande schermo, ben confezionata, sobria e piacevole, ma pur sempre fiction. Il meglio si trova nelle sequenze in cui, sgombrato il campo da dialoghi troppo verbosi e predicatori per non risultare pleonastici e vagamente irritanti, il racconto procede per immagini che galleggiano sullo schermo in tutta la loro cruda bellezza: così avviene ad esempio per la scena iniziale, primo scontro (letterale) fra il mondo degli isolani e quello dei migranti, con il relitto che si fa sineddoche di una tragedia invisibile ma chiarissima; per Filippo che prepara, furtivo, la sua noncurante apparizione nei vicoli notturni; per la gita in barca dei turisti, carnaio che si fa oscena parodia involontaria di (ben) altre zattere della Medusa; per la scena notturna in mare aperto, risolta in chiave horror, con un assalto che appare replica ironica quanto sconsolata delle situazioni di assedio tipiche dei film di zombie; ancora, per l’inaspettata barriera ittica che si erge fra Ernesto e le forze dell’ordine, vanificando ogni sforzo di mediazione fra due mondi inconciliabili, e per gli sguardi, densi più di mille discorsi, che segnano il primo contatto cosciente fra Sara e Giulietta. In questi momenti il film si libera da ogni schematismo, e più ancora dall’esigenza di spiegare e argomentare a tutti i costi, e diventa quello che oggi sembra così difficile concepire: cinema puro, che poi vuol dire cinema, tanto per parafrasare Cocteau. Quando invece cede alla tentazione di ridurre i personaggi a portavoce di istanze e, quel che è peggio, proclami da contrapporre e bilanciare (la figura dello zio di Filippo, esempio di pessima scrittura applicata a un personaggio in potenza valido) e di trarre a ogni costo un ammaestramento da vicende umane così sfumate e dolorose, Crialese sembra dimenticare prima di tutto se stesso, e in secondo luogo che ben altra profondità aveva, nella sua apparente leggerezza, l'affresco vacanziero e isolano creato da Paolo Virzì in Ferie d'agosto.

Le acque marine fecondano l'ispirazione di Crialese; lo sguardo del regista siculo-romano, immerso nel Mediterraneo, fantastica rivelazioni, ingegna coreografie, illumina enigmi, dipana racconti. La stilizzazione poetica del recente passato qui si alterna ora a figurazioni satiriche di rapida efficacia, ora a un realistico turgore drammatico; fino a toccare - in quest'ultima direzione - punte d’urticante secchezza nella rappresentazione dei naufraghi raccolti a bordo o depositati sulla riva, una fulminea eco degli zombi romeriani (La Terra dei Morti Viventi) nell'assalto notturno all'imbarcazione, e un austero lirismo nell'inquadratura conclusiva.

Il confermato talento visivo si rafforza con la capacità di scrutare nei volti; l'insistente ricorrenza di primi piani non suona espediente retorico in virtù, si capisce, della capacità dei protagonisti di reggere l'inquadratura ravvicinata (una gradita rarità, fra gli italici guitti); ma soprattutto per l'efficace orchestrazione emotiva che evita - con sporadiche infelici eccezioni - il sovraccarico di significati in favore del progressivo disvelarsi ed incedere dei caratteri, tra lo smarrimento di fronte all'incommensurabile e le contraddittorie pulsioni alla primordiale difesa del proprio spazio da un lato, alla solidarietà verso il proprio simile dall'altro.

Se l'asciuttezza narrativa talvolta difetta, con inflazione di parole e di lacrime, non diremmo che sia compromessa da alcuni momenti dialettici. La cultura dei padri è già sconfitta dai tempi: la giovane vedova vuole cercare sul continente una nuova vita e una rinnovata illusione di felicità, il figlio dell'ispido pescatore è schiavo della trista ideologia del successo e del consumo; quanto al nipote, è ancora sospeso fra le ottuse tentazioni da possidente e il fascino aspro dell'avventura; tranche de vie con ambizioni d'apologo sociale e nel contempo romanzo di formazione, dunque. Il primo profilo patisce un eccesso di didascalia (ma schizzo riuscito è la figura del rappresentante dell'ordine legale, un Claudio Santamaria quasi irriconoscibile per gretta arroganza), ma il secondo evita gli schematismi per solito incombenti sulle opere con intenti d'impegno civile: cavaliere con macchia e con paura, sfaccettato protagonista di un complicato quadrilatero famigliare (in cui pure risuonano le note sensuali, affidate allo scontroso fascino di Donatella Finocchiaro), già una volta sconfitto dalla paura, al pari d'un eroe conradiano Filippo saprà assumere su di sé il peso di una sfida, morale prima ancora che fisica, nuova e rischiosa.