TRAMA
Il lungo viaggio di un gruppo di donne vendute ai mercanti israeliani di prostitute.
RECENSIONI
Con uno stile semidocumentaristico, cambiando registro rispetto alle ultime, deludenti opere, Gitai segue il lungo, travagliato viaggio di un gruppo di prostitute russe dal paese d’origine verso l’antifrasticamente detta “terra promessa” Israele. L’occhio mobile del regista ne segue i passaggi (attraversamento del confine, superamento del Sinai, “smistamento” e vendita, arrivo all’hotel/casino eponimo), indugiando sui corpi, sottolineando, attraverso un’insistita mostrazione di epidermide, la progressiva trasformazione in oggetti da vendere al miglior acquirente di donne disperate.
Nei lunghi spostamenti da un luogo all’altro, da una stanza all’altra, la macchina da presa rifiuta l’ellissi, privilegiando il punto morto, forse per introdurre lo spettatore nel tempo e nello spazio “integrali” della visione: solo con la valorizzazione del narrativamente irrilevante o con la lunga decantazione del gesto o atto che fa progredire l’azione è possibile entrare in un mondo lontano e vicino, condividere con i personaggi le sofferenze e le lacrime, “comprendere” le parole sussurrate in un lungo, spiazzante monologo dalla maîtresse Hanna Shygulla. Nel realismo assoluto, nell’oggettività spinta all’estremo che sembra guidare la mano dell’autore, trova spazio uno squarcio di poesia dell/dall’orrore, che coincide col catartico finale: due delle prostitute giunte a destinazione si allontanano dal gruppo, si coricano coprendosi con un piumino rosso; una delle due ricorda le tappe del suo tragico cammino (flashback: la donna viene denudata e “soppesata” in una stanza da due uomini e tre donne, ripresi in campo medio controluce), l’altra immagina il futuro (flashforward o pura immagine mentale: assiste ad una messa in ebraico, ode un inno a Gerusalemme in inglese cantato da un coro di voci bianche); una deflagrazione interrompe il flusso di ricordi o fantasie; le due donne escono per strada, non più prigioniere di lenoni che l’esplosione ha messo in fuga. Con lo spiazzante e terribile rovesciamento “di senso” dell’attentato terroristico – rovesciamento che si ha adottando un punto di vista altro rispetto a quello a cui quotidianamente si dà, giustamente, spazio: non quello delle vittime o dei carnefici ma di coloro che, collateralmente, ne hanno tratto un qualche paradossale beneficio – si chiude un film estremo, che ha il coraggio di aprire una voragine nel quale lo spettatore finisce con lo sprofondare. Nel caos della psicosi collettiva, nel panico generalizzato, tra sangue, macerie e flash subliminali, le due schiave ritrovano una momentanea libertà, pur sospesa nel vuoto di senso.

Un Gitai ritrovato cavalca pienamente il suo cinema di frontiera: notte di luna velata, donne battute all’asta come bestie, odissea paradocumentaristica con la supponenza di IN THIS WORLD di Winterbottom trasformata in granitica levità. Il cineasta, mai così combattivo ed irreprensibile, gioca la pellicola non sul rapporto prostituta-cliente (come sarebbe prevedile) ma sull’ombroso microcosmo di preparativi, i piccoli abusi e la tenue sopraffazione, dipingendo uno stage delle ragazze in sede di trucco con la profondità della scena madre – la chiromantica Hanna Schygulla in un lacerante gioco di sguardi. Inquadrando la polveriera Medio Oriente sotto una nuova lente infuocata (israeliani e palestinesi vanno d’amore e d’accordo sulla tratta delle bianche...) il film impugna un coraggio tematico e narrativo con pochi eguali: calpestando splendidamente l’intreccio tramico la vera protagonista emerge soltanto nella parte finale, disegnata nella costante della handycam come a restituire un’esistenza travagliata, zeppa di strattoni e schiaffoni, ed infine ridotta ad oggettistica senz’anima (come manichini le ragazze verranno sollevate di peso). E la conclusione, che non abbiamo la crudeltà di svelare, è una delle chiuse più originali e stordenti vistasi negli ultimi anni: all’insegna di un montaggio alternato, passato presente e futuro, Gitai racconta con naturalezza la sua verità agghiacciante. Sfilacciato? Da KIPPUR l’israeliano non era mai stato tanto solido e diretto.
Talvolta la dicitura di film shock è solo vacua etichetta: non è questo il caso, PROMISED LAND sconvolge davvero.
Il primo quarto d’ora, il mercato della carne umana con seni e natiche in primo piano, fa più paura di tanti film dell’orrore.
