Western

TERRA DI CONFINE

TRAMA

Charley, Boss, Mose e Button sono quattro mandriani che operano negli sterminati pascoli dell’Ovest. I primi due saranno costretti ad impugnare le armi, per contrastare il capo di una piccola città di frontiera: il diabolico Denton Baxter, che vuole la loro pelle.

RECENSIONI

Nell'universo di Kevin Costner si muovono pistoleri silenziosi, figure crepuscolari, tiranni diabolici e donne che aspettano di essere amate sull'uscio di casa. Il personalissimo percorso filmico dell'autore passa attraverso la resurrezione del genere western, ne raccoglie gli storici topoi e ne utilizza le evidenti metafore: la terra di confine, oltre che luogo fisico, è quella linea sottile dell'animo che separa l'uomo dall'assassino (Charley che vuole 'finire' il nemico strisciante e disarmato). Si dirada lentamente il buio nel passato dei due protagonisti, durante la graduale preparazione del mezzogiorno di fuoco: questo arriverà con straripante potenza visiva, nella lunga sequenza della sparatoria finale che polverizza il trito schemino del canonico action movie. E' questa indubbiamente la parte migliore, quando l'esplosione di piombo rovente accantona il pretesto dell'omaggio; per il resto, gli archetipi del genere danzano intorno ad un film per appassionati, che detiene il pregio di diffondere il nostalgico respiro di un mondo che fu. Di quella costellazione sono presenti i dialoghi lapidari ('Tra un secondo io respirerò ancora'), l'immancabile saloon e l'ufficio dello sceriffo (corrotto), i granitici rapporti di rispetto e l'amabile iperbole (la pioggia fluviale che tutto sommerge). Soltanto l'infelice conclusione scivola nella retorica sentimentale (la dichiarazione d’amore mentre lei è chinata a potare i fiori), diffondendo il losco presagio dell’americanata: fortunatamente i titoli di coda nascondono questa sensazione dietro i neri della dissolvenza. Pienamente rispettata la centralità degli attori in un prodotto di genere: Costner si reinventa umanamente tenebroso, Annette Bening regala un composto tramestio interiore, Robert Duvall è puntualmente immenso, capace di illuminare la pellicola semplicemente muovendosi sulla scena. Amabile fin dall'andatura sbilanciata e caracollante, pregna del suo imperturbabile sarcasmo che è lo stesso di tutto il film: lo scetticismo dell'ironia invita a non prendersi troppo sul serio, inscenando i protagonisti mentre si leccano le dita sporche di cioccolata, appena prima dello scontro finale. Delicati frammenti antieroici che scavalcano la frontiera dell'omaggio, attraverso piccoli espedienti: in pochi istanti, l'umanissimo vizio della gola coinvolge lo spettatore in un automatico ingranaggio di identificazione simpatetica.

Come è accaduto a tutti i generi storicizzati, anche il western è andato alla deriva verso le coste dell'astrazione e delle rimeditazione, nell'epoca della tarda modernità. Se è pur vero che la produzione è crollata un quarantennio fa, lo è altrettanto che negli anni '90 Dances with Wolves (Balla coi lupi), Unforgiven (Gli Spietati),in modo suicida Wild Wild West e, in modo quasi definitivo, Wyatt Earp hanno avuto la forza di un nuovo giro di vite. Molti critici tendono a sottolineare come troppo spesso si voglia far dire a questi film, da parte degli autori, ben più di quanto tali film facessero nei loro tempi di splendore ma soprattutto più di quanto essi possano "reggere". Comunque sia, ad occhio e croce la vera rottura è avvenuta quando low e medium budget western, appoggiati da alcune "autorevoli" altre produzioni (con Lang, Hawks, Ford), hanno cominciato a presentare elementi evidenti di eversività rispetto all'ortodossia già statica sul tipo della serie Bonanza. La progressiva trasformazione del genere ha però mantenuto ferme alcune tematiche: non s'intenda solo la vulgata della frontiera, elemento centrale - per l'america tutta - quanto i concetti di fondazione e di patto sociale. Questa prospettiva di lettura parrebbe particolarmente fertile nel considerare il divenire storico quanto la produzione (rada, certo) degli ultimi anni; si potrebbe, certo, come altrove si può leggere, ancora parlare di dinamiche di "corpi", di elegia del tempo perduto, ma non è doveroso porre nuove questioni e soprattutto rispettoso più dell'opera e dei lettori? [N.d.A.: polemica iniziata e finita qui, promesso] Il passato che torna è certamente un elemento ricorrente anche nel (poco ma coeso) cinema di Costner, con i suoi personaggi scissi (per cultura in "Balla coi Lupi", eticamente nel pessimo "L'uomo del giorno dopo", geneticamente in "Water World"), ma in Open Range esso si unisce ad altri percorsi strutturali.
I mandriani nomadi protagonisti (con l'evidenza del rapporto multiplo padre-figlio/i, Red River insegna) si scontrano con il tramonto della loro epoca, l'Ovest non è più frontiera dello scontro con gli indiani, le città, piccole, fangose e fragili, nelle sterminate distese formano l'iniziale costellazione della socialità che si appropria dello spazio naturale. Tale acquisizione è chiaramente ipostatizzata nel filo spinato (barbed wire è la prima insegna che si scorge del centro abitato) come già in L'uomo senza paura di King Vidor; e non sembra fuori luogo ricordare il processo, lungo e faticoso, di enclosure nelle isole britanniche iniziato solo un paio di secoli prima. La recinzione dunque è la formalizzazione dell'ambiente imposta dal denaro, certo, quanto pure dallo stabilizzarsi delle dinamiche sociali, gerarchiche, di potere, incarnate dall'allevatore stanziale Denton Baxter (M. Gambon), immigrato irlandese che ha fatto fortuna. Charley Waite e Boss Spearman mettono in atto una vendetta personale per gli evidenti torti subiti (una venatura reazionaria difficile da dimenticare, insieme al fatto che sarà la stanzialità a vincere, anche perpetuando la memoria della libertà d'un tempo), è questo però anche l'ultimo fremito prima del definitivo declino della loro libertà, totale quanto, come rimarcato più volte, asociale. [Pur non amando percorsi metadispositivi qui si potrebbe anche fare un parallelo con l'azione di Costner che fortemente vuole il progetto e si autofinanzia, e del suo modo d'intendere il western ed il cinema]. Il protagonista, Charley, in particolare ha la possibilità di formare una famiglia (come una seconda vita a venire dopo l'atroce passato e l'intermezzo di sospensione vagabonda), con Sue, Boss, alla fine di acquistare un Saloon; la comunità, avendo dato prova di una nuova possibile coesione, di ricompattarsi e progredire, oltre questo mito fondativo (che ha un interessante "parallelo inverso" con la distruzione provocata dal "Cavaliere senza Nome" (The High Plain Drifter) di Eastwood. In tutto ciò rimane essenziale esplicitare, per il regista e gli sceneggiatori, l'accettazione e la reiterazione del patto di lealtà reciproca (unico Patto sociale ad una settimana dallo sceriffo federale): di qui le ribadite distinzioni tra amici e oppositori e le strette di mano. Costner - e con lui il direttore della fotografia James Muro - ha innegabile talento e gusto nella composizione di inquadrature, soprattutto di paesaggio e dotate di grande profondità del percepibile oppure legate a brevi movimenti assiale della macchina da presa (i.e. panoramiche orizzontali e oblique). Alcune manchevolezze si fanno invece notare nella costruzione di sequenze di articolazione superiore per le quali sembra sentirsi costretto al ralenti in chiusura (talvolta incongruo e troppo dilatato), nono sempre efficace come evidente nella complessa sequenza del duello che ha un'ottima e calibrata apertura cui s'innesta un prosieguo altalenante che se da un lato permette di recuperare il tono di potenziale realismo, d'altro canto abbandona le premesse drammaturgiche in quello che per un abbassamento di tono eccessivo (che si debba eccedere in questa direzione dopo "Gli Spietati"?); togliere epica ed eccesso retorico è una cosa, gambizzare la progressione, tutt'altra.
Nel complesso della vicenda di assorbimento sociale intendiamo qui la trama "amorosa" che lega Charley a Sue, assai convenzionale non fosse per alcuni dettagli (problemi di ambientazione nella casa, la scena delle tazze, alcuni silenzi sulla porta), dotata inoltre di strane temporizzazioni nel contesto ma efficace; questo nonostante il doppiatore di Costner, Luca Ward, non si sia reso conto che è francamente idiota sostenere un dialogo sussurrato in pieno giorno, in esterni, con i parlanti ad un metro e mezzo l'uno dall'altra. Open Range è il progetto per cui Costner non ha accettato di recitare in Kill Bill. Il grande Robert Duvall cadendo da cavallo si è rotto sei costole durante la lavorazione.