
TRAMA
2018, post-apocalisse nucleare: Skynet prepara l’attacco definitivo alla resistenza umana, capitanata da John Connor, che però potrebbe aver trovato la “soluzione finale” per sconfiggere le macchine. Nel frattempo fa la sua apparizione il misterioso Marcus, supercombattente con un sintetico segreto…
RECENSIONI
Il quarto capitolo della saga sembra più uno spin-off che un prequel – sequel – qualunquecosasiaquel: c’è non solo una presa di distanza piuttosto decisa dalla piega autoironica che aveva preso il terzo capitolo, ma anche la struttura caratterizzante dei precedenti Terminator è sostanzialmente abbandonata. Con Salvation si entra nel territorio del postapocalittico puro, con spessa patina dark e fotografia desaturata, e per la prima volta si opta per un setting temporale unico e lineare, che prende atto dei risvolti allostorici (e spesso paradossali) precedenti, diegetizzandoli come meglio può senza innescarne di nuovi. Non ci sono viaggi nel tempo, nel film di MCG, ma una cronologia impazzita ab initio (Connor/Reese – figlio/padre a età quasi invertite) che non ricopre un ruolo fondamentale per seguire quella che è, a tutti gli (altri) effetti, un “semplice” vicenda di guerra fantascientifica con protagonista l’archetipico scontro uomo-macchina. C’è la Resistenza Umana e c’è La Cibernetica al Potere di Skynet che se la danno di santa ragione. Più o meno, punto. Una sorta di lunga dilatazione dei flashforward che fin dal primo capitolo cameroniano [1] avevano acceso la curiosità dei fans sulla fantomatica lotta tra uomini e robot, non troppo concettualmente dissimile dalle finestre aperte sulla Guerra dei Cloni nell’universo di Star Wars. Che certo non è l’unico riferimento “altro”. Con l’occasione, Terminator: Salvation diventa ricettacolo di tutta una certa fantascienza più o meno recente, attivando una serie infinita di metarimandi ipertestuali che spaziano dai dilemmi robo-etici à la Blade Runner, all’epica battaglia uomo-macchina virata al filosofico di Matrix, passando per riferimenti più circostanziati (la cattura dei prigionieri de La Guerra dei Mondi) a loro volta passibili di ulteriore interpretazione (la deportazione nei campi di concentramento), per altri ancora più ludici (i jap-robottoni anni ’70) che finiscono per tuffarsi nell’oggi cinematografico (Transformers) senza dimenticare l’omologia con altri immaginari video-ludici (il recente Fallout 3) a loro volta debitori di questo cinema. Se non è una boccata d’aria fresca, per la saga, poco ci manca: l’idea di aprire una finestra sul futuro/passato della Resistenza guidata da John Connor (che finalmente vediamo “all’opera”) è comunque buona e MCG, coadiuvato da un sound design davvero ottimo, si dimostra (conferma?) intrattenitore non troppo grossolano; se già nei due Charlie’s Angels aveva fatto intravedere delle qualità, qui, complice l’atmosfera più seriosa, lascia affiorare sprazzi registici più ambiziosi e architetta sequenze di sicuro effetto misto a suggestione: su tutte, ci piace ricordare il piano sequenza di due minuti nel quale una steady segue Connor/Bale sul campo di battaglia, poi lo affianca e si leva in volo con lui alla guida di un elicottero, non lo lascia mentre l’elicottero viene colpito e abbattuto (con mdp che si intrufola nell’abitacolo) e infine chiude con una panoramica sullo steso Connor, scampato all’incidente, che esce dall’elicottero, barcolla (sullo sfondo un mini-fungo atomico) e viene improvvisamente attaccato da un Terminator.
Tutto bene dunque? No di certo. I paradossi temporali, seppur dati per acquisiti, continuano ad essere maneggiati con troppa disinvoltura, la sceneggiatura non manca di passaggi a vuoto (e di troppi clichè, anche nel comparto dialoghi) mentre gli attori sanno di accessorio, con Christian Bale che più di una volta sembra piombato sul set all’ultimo minuto, poco informato sui fatti. Ma tant’è. Come la moda impone, anche la Terminator Saga ha avuto il suo re-start e l’impressione è che sarebbe potuta andare molto ma molto peggio. Cameo della testa del Governatore della California su corpo di culturista contemporaneo vivente.
[1] C’è un preciso riferimento iconico, ripetuto più di una volta, che simboleggia la centralità del richiamo: il teschio frantumato che inaugurava la saga, appunto in flashforward, nell’84.

Anche la saga di Terminator ha il suo numero zero, stile Batman Begins, e ancora una volta se ne fa portabandiera Christian Bale, attore carismatico che partecipa attivamente alla realizzazione delle opere cucendosi addosso figure con il consono spessore epico/tragico: McG gli ha dato carta bianca riservandosi il ruolo di “creatore di immagini”, di pittore della migliore meraviglia fantascientifica in circolazione coordinando i tecnici degli effetti speciali, visivi (per lo più dipendenti della ILM di George Lucas) e di creature meccaniche (del compianto Stan Winston), avvalendosi della splendida fotografia di Shane Hurblut, del suo décor fatiscente che entra sottopelle, fatto di colori desaturati nella polverizzazione di un futuro apocalittico. Ma è la sceneggiatura di John Brancato e Michael Ferris a fare la differenza, contro ogni aspettativa dopo il loro Terminator 3, spettacolarmente efficace quanto privo di audacia e creatività: sarà merito delle mani autorevoli in cui era finita precedentemente, della volontà della produzione di seguire una moda che rilegge le saghe con fare tragico più adulto o di un regista che conosce a menadito le tappe del climax epico, fatto sta che questo capitolo funziona sia a livello spettacolare che drammaturgico. C’è una scena, in particolare, che sorprende nella sua organizzazione spaziale e per il suo rincorrersi di pericoli, quella in cui Marcus e i due ragazzini cercano di sfuggire prima a un terminator gigante, poi a due moto-robot, infine ad un’astronave. L’opera, oltretutto, riesce a creare tensione psicologica senza staccare (quasi) mai il piede dall’acceleratore, mentre vengono presentati snodi/temi drammatici affatto semplicistici e personaggi colmi di chiaroscuri: l’eroe della saga, John Connor, agisce anche in modo iniquo perché offuscato dall’odio, da anni di guerra e demonizza il nemico affidandosi ai suoi soli segni esteriori, incapace di vedere oltre le apparenze; la figura di Marcus ammalia nella sua ambiguità: assassino conclamato, abbraccia allo stesso modo violenza e gesta di grande umanità e porta un segreto che riserva evoluzioni inaspettate.
