TRAMA
A dare la caccia a John Connor e alla sua futura moglie, stavolta, è una Terminatrix. I compagni ribelli, dal futuro, inviano in suo aiuto il modello T-1.
RECENSIONI
Si può cambiare il futuro? In era matrixiana i creatori di Terminator, orfani di James Cameron, reclamano il peso del proprio passato e chiedono al John Sturges moderno (il classico, efficace ed impersonale Mostow di Breakdown e U-571) di riportare ordine fra le velleità filosofiche dei fratelli Wachowski, tramite azione spettacolare, effetti speciali e cacce spietate. E’ paradossale (lo spirito della saga è antitecnologico) che si facciano guidare da terminator cibernetici come gli sceneggiatori Ferris e Brancato (che entrano in tilt di fronte alle parole “creatività” ed “audacia”) e da tecnici degli effetti speciali che non realizzano ma replicano, affezionati (come John Connor) ai vecchi modelli-Schwarzenegger (in splendida forma…fisica). Ma le macchine prediligono i risultati certi e insegnano a Mostow che non bisogna mollare mai (lo spettatore). Se mancano il fascino e la meraviglia dei capitoli precedenti, basta stornare i languori di troppo (Terminator 2), ignorare (meno male!) gli impulsi riflessivi (l’ineluttabilità del giorno del giudizio, l’umanità definita dalla fede nell’impossibile), rincorrere (le autostrade di) Matrix Reloaded (con un Big-Bigger-BIGGER! inseguimento su automezzi) e, soprattutto, indovinare la giusta dose d’ironia, fra seni gonfiabili, macho-men angariati e robotate clownesche. Non guastava maggior cura nei dettagli (i vestiti che si rubano poi si auto(ri)producono, la bara sotto tiro che non disturba la conversazione, l’inguardabile fermo immagine sul Terminator disinserito), ma il “Tu sei terminata” finale svela la catarsi da un incubo bellissimo, quello della Species specialissima Kristanna Loken, che tiene testa all’indimenticabile cyborg di metallo liquido di Robert Patrick e, pur essendo l’ennesima variante moderna sull’erotica “signora omicidi”, dimostra di (non) possedere un’anima (ottima interpretazione) con i suoi imperscrutabili occhi di ghiaccio. Non è solo un corpo e svela l’altro paradosso di una saga che, esaltando il fattore umano, porta sempre in trionfo i cyborg.
Ci sono voluti dodici anni e vari passaggi di testimone prima di arrivare alla terza puntata del fenomeno "Terminator" (parlare di saga sarebbe un po' fuorviante, visto che i due sequel sono nati unicamente per ragioni commerciali). Alla fine l'ha spuntata Jonathan Mostow, regista dal solido background ("Breakdown", "U-571"), professionale ma anonimo. E il film lo rispecchia appieno, tecnicamente al passo con i tempi ma privo di qualsiasi sorpresa. Non è tutta colpa del regista, però, perché è proprio il copione a ricalcare con poca fantasia il secondo episodio, con ancora un cyborg in missione dal futuro per uccidere il predestinato salvatore dell'umanità nella lotta contro le macchine. Esattamente come in "Il giorno del giudizio", quindi, con la differenza che il Terminatrix omicida è femmina e ha le giunoniche forme di Kristanna Loken. Ovviamente il sesso del robot non dipende da elaborate scelte narrative, ma solo da decisioni di marketing: una donna cyborg non si era ancora vista (anche se Linda Hamilton ci andava vicino) e la bellezza gelida, ma accattivante, della modella americana ha l'unico scopo di una variante per evitare il calco e catturare i teen-ager. Purtroppo, però, l'incedere della femme fatale d'acciaio diventa presto ripetitivo, come la sua indistruttibilità e la capacità di mutarsi in chiunque. E Schwarzy? L'aspirante governatore della California, oltre a incassare un assegno da record (si parla di trenta milioni di dollari ma, si sa, le spese elettorali costano care) torna con simpatia nel giubbotto da Village People del Terminator "buono", sfiorando in più di un'occasione il ridicolo (è in grande forma fisica ma ha pur sempre cinquantasei anni) e svecchiando il suo risaputo personaggio con tocchi di ironia, non troppo sottile ma comunque funzionale. Quanto alla co-protagonista Claire Danes, sembra essersi persa una tappa anagrafica: fino all'altro ieri era una graziosa adolescente ("Romeo + Juliet", "The Hours") ed ora ce la ritroviamo donna (tendente alla "zia", peraltro). L'eroe per caso John Connor ha invece il volto di Nick Stahl, che ha il pregio di rappresentare il perfetto "ragazzo comune": belloccio ma non troppo e con l'occhio sveglio. Contrariamente alla media dei film provenienti da oltreoceano, "Terminator 3" comincia malino e finisce meglio. La prima parte è, infatti, un susseguirsi di situazioni trite, abbozzate senza troppa inventiva. Basta pensare al lunghissimo inseguimento stradale: perché la valchiria senz'anima si butta nella mischia su un'enorme autogru e non su un'auto qualunque? Per fare spettacolo, ovviamente, e in assenza di sostanza la regia imposta la chilometrica sequenza sull'accumulo: più auto, più camion, più pallottole, più crash, più esplosioni. A tanto fragore non corrisponde però alcuna tensione e anche l'occhio si limita a osservare senza godere come vorrebbe. Per fortuna, con lo scorrere dei fotogrammi il film prende quota, non risparmia ingenuità ("Skynet ha conquistato l'autocoscienza"), ma ipotizza uno scenario apocalittico di forte impatto. Se i primi due lungometraggi, firmati da James Cameron, sono riusciti a fare entrare Schwarzenegger e il suo Terminator nel mito, segnando una tappa importante nella realizzazione degli effetti speciali, la terza parte galleggia appena a fior d'acqua, senza prenotarsi un posto nella memoria, nè del cinema, ma nemmeno dello spettatore.