TRAMA
RECENSIONI
Rodrigo Sepúlveda adatta l’unico romanzo di Pedro Lemebel, amato in patria: il cinema cileno continua a scavare nella dittatura di Pinochet, dopo i titoli chiave del primo Larraín e i meravigliosi film (documentari?) di Patricio Guzmán che, in Nostalgia della luce, creava una spiazzante analogia cielo/terra nel deserto di Atacama, il cielo per osservare le stelle, la terra per cercare i resti delle vittime. In una cinematografia ormai nutrita Tengo Miedo Torero contiene una novità: affronta la questione dalla prospettiva LGBT in modo frontale, senza fronzoli né giri di parole. La storia del travestito interpretato da un gigantesco Alfredo Castro funziona infatti da metonimia per tutta una minoranza, sempre sola, ignorata da ogni rivoluzione (come lui stesso afferma), che per questo non partecipa alle proteste contro Pinochet negli anni Ottanta, ma vi “passa attraverso”. Proprio graficamente: l’immagine ripetuta di Castro che, con calma olimpica, cammina “dentro“ i cortei anti-regime ma non ne fa parte, mimetizzandosi solo con qualche slogan, vale più di ogni parola. Ecco che il cinema cileno sta gradualmente costruendo un “secondo grado” nella resa dei conti col rimosso del regime: superati i film “solo” contro Pinochet, si è ormai insinuata un’ambiguità che riguarda tutta la società, la chiama in causa, la convoca perché ha preparato l’arrivo di quella dittatura e l’ha combattuta con sottile ipocrisia. Come in NO di Larraín la vittoria al referendum passava attraverso la svendita alla televisione commerciale, “berlusconiana”, aprendo l’era degli spot sciocchi e dei balletti, così in Tengo Miedo Torero la resistenza dei comunisti si dimentica totalmente della comunità LGBT, che di fatto non esiste (“Non c’è un comunista gay”).
Appurato lo statuto dell’ambiguità che pervade la lotta, e trova nel protagonista il grillo parlante di tali contraddizioni, quello di Sepùlveda non è però (solo) un film politico: è un melò letterario su un amore impossibile, tessuto fra un travestito avanti negli anni e un bel rivoluzionario che lo usa per nascondere le armi necessarie ad uccidere il dittatore. L’overage di Castro ricorda il Raul di Tony Manero: l’uno voleva ballare e l’altro vuole amare, sono troppo vecchi ma vogliono farlo lo stesso. Con ostinazione folle e struggente. Qui il/la protagonista dai mille nomi sa che Carlos non la ama, ma non importa: tiene vivo quell’amore in modo sfacciato, senza pretendere, ed entra così nell’organizzazione dell’attentato. Sepúlveda gira il racconto in interni oscuri, nelle case in cui i ribelli si nascondevano dal regime, per forza di cose anonime, ma poi lo “apre” conducendolo verso l’infinità del mare. Così come inscena la violenza poliziesca (l’irruzione iniziale) e la intreccia a scampoli di sentimento, sfaccettando ulteriormente la questione. Sì, perché quando la situazione sembra chiara, quando il rapporto di amore-convenienza tra i due appare ormai definito, è proprio in quel momento che forse qualcosa c’è: siamo sicuri che quello di Carlos sia solo sfruttamento? Un ideale non può comprendere un amore? Ecco che Tengo Miedo Torero, nel suo racconto di una stagione tragica, nella sua love story sognata, propone coraggiosamente un altro tipo di “impegno”: la politica dei sentimenti. Che poi sia fallita, come dice Castro, non significa che non sia stata vissuta.
