TEHILIM

Anno Produzione2007

TRAMA

Gerusalemme. Il 17enne Menachem e la sua famiglia conducono una vita tranquilla e ordinaria che viene però sconvolta dalla misteriosa sparizione del padre dopo un incidente automobilistico.

RECENSIONI

La scomparsa del Padre

Se un uomo perde la vista come potrà orientarsi verso Gerusalemme per pregare?
Basterà che si volga verso l'alto, perché lì è Dio.

Eppure questo insegnamento, che potrebbe appartenere a un testo sacro di qualunque religione trascendente, si dimostrerà inadeguato quando la perdita colpirà per ironia della sorte proprio la famiglia del vecchio maestro che lo ha enunciato nella sequenza di apertura del film.
La scomparsa, l'assenza, e non la morte. Già questo scarto spiazza lo spettatore abituato a pensare la vita israeliana non svincolabile dal rapporto/conflitto con i vicini arabi. E Nadjari non usa terroristi e kamikaze come alibi per giustificare una crisi "della famiglia", che si genera esclusivamente per le sue contraddizioni interne, e che degenera quando si tratta di affrontare il prodotto esplosivo di quella crisi.
Ma un modus vivendi cadenzato su una serie di regole può essere in grado di superare una situazione così indefinita? Può un claustrofobico quotidiano rituale di preghiera protrarsi ossessivamente all'infinito senza appoggiarsi a soluzioni alternative? L'atteggiamento un po' vigliacco del vecchio religioso che si ostina a pregare in aria indifferente al mondo esterno è lo stesso di quello del suo nipote maggiore, che guarda in cielo perché la terra non riesce a fornirgli una spiegazione accettabile razionalmente. Sarà la moglie dello scomparso, laica, donna, dunque più pragmatica ed elastica, a salvare, pur immersa nello strazio, la famiglia dal collasso economico, anche se sacrificando i compiti di madre, lasciando solo l'immaturo figlio maggiore: Menachem, in balia dei condizionamenti del nonno, senza controllo, finirà per deragliare anche dai binari dell'ortodossia.
Lo schematismo dimostrativo della linea narrativa principale, in particolare l'evoluzione del comportamento di Menachem (evoluzione priva di ellissi e sfumature, rappresentata dalla programmatica sequenza dei suoi incontri e scontri), nuoce alla fluidità del film, gia appesantito dall'estenuante recita dei salmi che tuttavia ha la funzione di cristallizzare l'ostinato immobilismo di chi delega a Dio la risoluzione dei propri problemi.
Sono invece i punti oscuri a lasciare spazio a suggestive interpretazioni e a intriganti sottotesti.
La rappresentazione dinamica dell'incidente, così goffa da renderlo irreale, e il "fuori campo" della sparizione, ma già da prima la stanchezza così posticcia dell'uomo, lasciano l'impressione non di un malore ma di un disegno preparato a tavolino, quasi una recita "pirandelliana". L'uomo fugge dalle responsabilità di capofamiglia, ma soprattutto dal fallimentare tentativo di conciliare la rigida tradizione millenaria con un approccio pedagogico più moderno e flessibile, che tenga conto dei tempi che cambiano e delle esigenze di libertà sempre più pressanti da parte dei figli (illuminante a tal proposito la discussione in famiglia sull'opportunità di ospitare un fratello del padre cui nessuno dei figli vuol cedere la stanza).
Si affaccia anche una dimensione squisitamente geopolitica: come sopperire alla scomparsa di un Dio che pare abbandonare quella zona martoriata lasciandola in balia di una follia inspiegabile? Si ha la sensazione che il pragmatismo della protagonista femminile del film sia un consiglio, una sferzata alle nuove generazioni che dovranno guidare Israele e non solo: forse è il caso di finirla con azioni giustificate sempre in nome di Dio, forse è il caso di caricarsi sulle deboli spalle le proprie pesanti "umane" responsabilità.