TRAMA
Mentre John è tornato single, l’orsacchiotto Ted ha sposato Tami-Lynn. La coppia, provata dalla routine, pensa che avere un figlio possa riappianare i conflitti. Idea balzana, ma i problemi sono altri. La legge, infatti, stabilisce che Ted, essendo un orsacchiotto, non è una persona, ma una proprietà, quindi non può adottare un bambino. Le conseguenze sono devastanti perché Ted viene licenziato e il suo matrimonio è annullato. Grazie all’aiuto dell’inseparabile John e di un’avvocatessa, Ted dovrà intraprendere una battaglia legale per far valere i proprio diritti e dimostrare al mondo che non è solo un giocattolo.
RECENSIONI
Dopo il flop di Un milione di modi per morire nel West l’eclettico Seth MacFarlane va sul sicuro. Difficile inciampare in un altro fallimento quando il capostipite ha decuplicato il budget di 50 milioni di dollari. E infatti il riscontro è stato un successo, inferiore alle lecite aspettative ma pur sempre un successo. Come da regola il secondo capitolo deve alzare il tiro, quindi più volgarità, più scorrettezze, più citazioni, più camei e anche più Ted. L’orsacchiotto dall’aspetto coccoloso e dal rutto facile diventa infatti protagonista assoluto, relegando in secondo piano il suo “rimbombamico” John Bennett, emblema dell’uomo medio secondo lo stereotipo attuale che lo vuole eterno Peter Pan, fieramente nerd e del tutto inaffidabile. Un personaggio che fa della mancanza di personalità e del fancazzismo assoluto uno stile di vita e che trova, proprio per il suo volare basso, una facile empatia con il pubblico, stanco di modelli edificanti distanti anni luce dalla mediocrità del quotidiano. Il rischio di esaltare il nulla puntando al deteriore è solo in parte cavalcato, perché la volgarità gratuita è un magma scivoloso che oltre a stancare in fretta non sempre fa ridere (i siparietti tra Patrick Warburton e Michael Dorn non alzano un sopracciglio e sono soprattutto imbarazzanti). Se la prima parte, pur rimasticando la verve di personaggi che avevano già esaurito le loro potenzialità nel primo episodio, funziona, nel senso che risulta irriverente e sfrontata a dovere (la crisi di coppia tra Ted e la novella trucida sposa, le gag nel centro donatori sperma, l’idea di masturbare il divo del football Tom Brady per trovare un seme adeguato), tutta la svolta processuale, in cui Ted deve dimostrare di non essere una proprietà ma un essere umano, annacqua un po’ l’insolenza, marchio di fabbrica del brand, piegandola a sani ed edificanti principi.
Poco male se l’insieme inducesse almeno al sorriso, o alla risatona, invece la necessità di imbrigliare l’anarchia in un racconto compiuto smorza anche il divertimento. Decisamente stridente, poi, la necessità di un cattivo, con il ritorno dello psicopatico interpretato da Giovanni Ribisi, già esornativo nel primo capitolo e qui più che mai fuori fuoco. Funziona poco anche la new entry Amanda Seyfried, l’avvocatessa che assume il caso di Ted pro bono e che sostituisce Mila Kunis (liquidata per maternità) come controparte femminile. Il suo personaggio combina un aspetto angelico con l’utilizzo assiduo di marijuana a scopo terapeutico, ma più di ciò non sa offrire, risultando quindi piuttosto scialbo, così come risulta prevedibile, priva com’è di intoppi, la liason con John. Il frullato di cultura pop, le citazioni, l’amore per i generi cinematografici (gli sberluccicanti titoli di testa a tempo di musical ne sono un esempio), gli innumerevoli camei, trovano compendio nella caotica conclusione al New York Comic Con, dove tutte le deboli tracce del racconto si intersecano facendo soprattutto rumore. Se l’insieme si lascia scorrere nonostante la debolezza dell’intreccio e le tante, volute ma non sempre efficaci, cadute di stile, è proprio grazie a Ted, ancora una volta semplicemente irresistibile. Ma la sua simpatia sboccata e mordace fatica a reggere un intero film.