TRAMA
Un regista condannato a non filmare, un taxi per le strade di Teheran.
RECENSIONI
Jafar Panahi sfida il regime sul piano della finzione. Nel terzo film girato dopo il divieto del governo iraniano, interpretando il guidatore di un taxi per le vie di Teheran, il regista va al cuore del rapporto tra realtà e rappresentazione: Panahi si finge un tassista oppure resta se stesso? In tal caso, è il vero sé o recita la parte che ci aspettiamo da Panahi? E ancora: i passeggeri sono clienti autentici o attori consapevoli? Cosa è vero e cosa segue un copione? Lo spacciatore di Dvd afferma: «Io l'ho capito, signor Panahi: sono tutti attori e lei sta girando un film», e lui non risponde nulla. Nel viaggiare di questo taxi - però - emerge con chiarezza la sua natura di finzione, gli incontri 'casuali' sono troppo scritti, la finitezza della storia è un prodotto narrativo. Se prima i livelli si confondevano inestricabilmente, come ne Lo specchio, qui l'essere in posa diventa palese e sfacciato. Ed è voluto: dinanzi alle regole imposte su come fare un film, e fallite perché il corto della piccola Hana non riesce, Panahi oppone la sua finzione. Due castelli di fiction l'uno contro l'altro: il regime allestisce una recita seria, che inizia a scuola e uccide l'invenzione, il regista dirige una messinscena ostentata, commedia clandestina in veste di scherzo tra amici. Il disagio dell'autorità si innesca proprio quando la finzione è sovraesposta, ingrandita e portata alla rottura: il film viene rubato non perché realista, ma perché troppo finto. La repressione scatta in ritardo, la storia è già compiuta sottoforma del film che abbiamo visto: Panahi vince, il regime è sconfitto.
Se This is not a film era la storia di un arresto (letteralmente: dello stare fermi) e Closed Curtain decretava la scelta di continuare a filmare, con il suicidio smentito da un rewind, con Taxi Teheran il movimento riparte. Di più: non solo il cineasta si muove vorticosamente, a bordo della vettura, ma conducendo (guidare come girare) permette lo spostamento dei suoi passeggeri, il percorso da un punto all'altro come forma di resistenza, il moto innescato contro la stasi forzata. E nell'importanza di esserci egli usa la (propria) memoria cinematografica come provocazione, seminando nel film una sintesi del suo cinema con minime - e decisive - variazioni di senso. Lo spazio del taxi si presta con i suoi ospiti: Hana che aspetta all'uscita di scuola, come la bambina de Lo specchio, ma con esiti opposti (l'una si perdeva, l'altra viene trovata: dal regista appunto); il dialogo che ricorda vagamente quello di Oro rosso; la donna delle rose, costola de Il cerchio, che qui non si chiude alla repressione ma apre all'esplicitazione della vita sotto regime. Fatti i film di ieri, il regista oggi li rivendica e riscrive in favore della libertà.
Un mockumentary tanto ironico quanto devastante, che nasconde prese di posizione e culmina nella scena più politica, la ripresa del trafficante di film: se questi non si possono vedere allora è lecito il contrabbando, eseguito da un pusher freak e favorito da Panahi, perché il cinema si propaga virale e non si oscura per legge. «Tutti i film meritano di essere visti», dice il tassista/regista. Dietro al passo leggero, dunque, Taxi Teheran si pone con dolore un problema etico: che faccia ha un ladro, è lecito rubare per disperazione? Come ribellarsi a un regime che opprime? Il ladro non sarà inquadrato, la risposta resta implicita e la questione aperta. Cinema coerente con se stesso, che mostra con orgoglio la sua forma meta e genera continui cortocircuiti, innestando il dubbio sulla messinscena esattamente come il sospetto sulla tenuta autoritaria: è credibile il divieto, si può spegnere una cinepresa? Ciò che più colpisce è la capacità del regista di rovesciare la situazione a suo vantaggio: se il punto è continuare a girare, il film si offre come omaggio all'atto stesso di fare cinema, rischioso perché autonomo, non intimidito ma gioioso e perfino dirompente, che all'arresto oppone sempre il movimento. L'Orso d'oro di Panahi, con quella rosa umanista che scalfisce l'inquadratura, afferma un dato di fatto: il linguaggio di un regista è superiore alla lingua di un regime.
