Thriller

TATTOO

Titolo OriginaleTattoo
NazioneGermania
Anno Produzione2002
Genere
Durata108'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Un poliziotto dal passato oscuro e un giovane cadetto ribelle insieme sulle tracce di un misterioso serial killer, che strappa i tatuaggi dal corpo delle sue vittime per rivenderli ai collezionisti.

RECENSIONI

"Tattoo" è l'esordio cinematografico di Robert Schwentke, giovane regista proveniente dalla televisione. Ed è fondamentalmente due cose: l'ultimo esponente del thriller alla tedesca anni duemila, e un'immersione nella teoria della globalizzazione dell'identità attraverso lo sguardo, e dell'ambiguità dello sguardo come meccanismo di costruzione della suspance e decostruzione della realtà. Del thriller alla tedesca di questi ultimi anni (Das Experiment) riprende la vocazione internazionale, nella scelta di attori sconosciuti al grande pubblico ma capaci di rimandare ad un immaginario globale (grazie alla somiglianza con i divi più famosi), e nella scelta di privilegiare la confezione sul contenuto. La cosa notevole è la fotografia di Jan Fehse: algida e respingente, e insieme capace di incombere sui personaggi attraverso lo stravolgimento degli ambienti reali. La cosa ridicola è la regia di Schwentke. Il linguaggio espressivo con cui Schwentke decide di portar e avanti il suo discorso sul thrilling si fonda, infatti, sulla sintassi dello spettacolare (dolly e panoramiche), sulla morfologia del video-clip (montaggio martellante), sulla logica del film-tv (scrittura sbrigativa), e sull'eredità italiana degli anni settanta (Dario Argento). A livello formale "Tattoo" è la brutta copia di Profondo Rosso, di cui Schwentke riprende tutti gli accorgimenti: la ricostruzione allucinata della città (le location privilegiano l'architettura degli anni '50 di Berlino e di Colonia), l'uso ipnotico della colonna sonora (che immerge la visione in una costante distorsione sensoriale), il compiacimento della visione del sangue (gli effetti della violenza sui corpi più che l'atto della violenza in sé). Più interessante è il discorso sullo sguardo e sulla ricerca d'identità. Schwentke utilizza l'identificazione dello sguardo e la sua smentita per creare la sorpresa e la tensione della suspance. I film si apre con una lenta panoramica in avanti lungo una carreggiata. A questo punto potremmo considerare lo sguardo della macchina da presa come una descrizione introduttiva di un luogo (una panoramica appunto). Lo sguardo, però, comincia a girare per seguire un'automobile che sfreccia sulla corsia opposta. A questo punto potremmo pensare che lo sguardo della macchina da presa, con il suo movimento a seguire l'automobile, stia per introdurre un personaggio all'interno dell'automobile (oggettiva impersonale). Ma la panoramica continua e compie una rivoluzione di 180 gradi su se stessa, rivelando la presenza di un personaggio proprio dietro la macchina da presa. A questo punto quella che ritenevamo essere, prima una panoramica, poi un'oggettiva impersonale, si è rivelata lo sguardo di un personaggio (cioè una soggettiva). Nell'arco di un unico movimento della macchina da presa lo sguardo del personaggio si è trasformato nello sguardo verso lo stesso personaggio (da soggettiva a oggettiva impersonale). In questo modo, Schwentke, eliminando la convenzionale divisione dello spazio e dei punti di vista, ha creato una perturbazione nel sistema di aspettative e nella capacità di immedesimazione dello spettatore che ha portato ad una doppia sorpresa: la sorpresa della rivelazione della vera identità dello sguardo iniziale, e la sorpresa dell'apparizione del personaggio. Purtroppo queste solide premesse non vengono sviluppate da Schwentke nel corso del film. La regia perde quasi subito e quasi del tutto la sua funzione di costruzione attiva del racconto, riducendosi a una banale funzione didascalica, e limitandosi a utilizzare la capacità del mezzo di giocare con l'ambiguità di identificazione tra soggettive e oggettive per creare la suspance (senza peraltro raggiungere mai, in questo, l'intelligenza cinematografica di Dario Argento). Schwentke inoltre, non si limita a giocare con l'identità a livello formale. Imbastisce l'intero contenuto del film attorno al tema della ricerca dell'identità (il tatuaggio e la "body modification" non sono altro che segnali di una volontà di distinguersi, ritrovarsi). Muovendo proprio dall'antitesi tra bisogno di cogliere la realtà e impossibilità dello sguardo di definirsi come identità, Schwentke manifesta la migliore incapacità possibile nel rivolgere lo sguardo ad una realtà (la Germania) incapace di trovare la propria identità (cinema), e finisce per confezionare un prodotto che ha il suo punto di forza nella globalizzazione (intesa come facile identificazione dei parametri di esportazione).