Horror, Recensione, Sala

TALK TO ME

Titolo OriginaleTalk to Me
Anno Produzione2022
Genere
Durata95'
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Mia ha perso da poco la madre e ha un rapporto complicato con il padre. L’amica Jade e il fratellino di lei Riley hanno un rapporto di amicizia molto stretto con Mia e la ospitano a casa, come se facesse parte della famiglia. Intanto tra i coetanei di Mia e Jade si diffonde sempre più una serie di video che ritrae gli effetti di un gioco: una sorta di seduta spiritica, in cui il soggetto entra in contatto con gli spiriti dell’aldilà. Quando Hayley propone a Mia di sottoporsi alla sfida in questione e stringere la mano che apre un contatto con i non morti, la ragazza sorprendentemente accetta e vive un’esperienza sconvolgente.

RECENSIONI

Un canguro giace a terra, su una strada isolata, sanguinante e agonizzante. È un presagio di morte. Una sequenza breve, dal forte valore simbolico. A scoprirlo saranno una ragazza 17enne Mia (la protagonista) e il 14enne (fratello della sua migliore amica) Riley. Lui vorrebbe porre fine alle sofferenze dell’animale, investendolo con la macchina, lei invece turbata e paralizzata dalla visione sterza evitandolo. Non è il prologo - un piano sequenza tesissimo e spiazzante - ma un momento chiave del film, che anticipa temi, caratteri, atmosfere. Talk to me dei registi Danny e Michael Philippou, acclamato al Sundance e distribuito con successo in America dalla A24, è un film profondamente contemporaneo per come mette in scena le dinamiche adolescenziali: il gruppo, gli amici (alcuni fidati, altri un po’ stronzi), la viralità social, il desiderio di trasgressione, l’incoscienza, i primi amori, le incomprensioni con i genitori. È chiaramente un horror. Anche molto raccapricciante e con alcune scene gore, robuste e ben orchestrate. Non ci sono jumpscare, non si salta in aria in modo sciocco e programmatico; invero si resta coinvolti e avviluppati dal crescente senso di tensione e imputridimento che domina e aleggia con voluminosa persistenza. Il sottofilone della seduta spiritica è stato riproposto innumerevoli volte, con esiti spesso trascurabili e non particolarmente originali. In Talk to me non c’è la tavoletta Ouija, ma una mano - forse appartenuta ad una medium barbaramente trucidata - che se toccata, permette, aprendo un varco, di stabilire un contatto con l’aldilà. Il gruppo di amici - inebriati, eccitati, quasi drogati dalla situazione - a turno provano tutti.

Il primo passaggio è lo stato di trance, il corpo viene posseduto e abitato dallo spirito evocato. L’esperienza è traumatica e violenta fisicamente ed emotivamente, il volto di chi prova sembra assorbire la sofferenza e il furore di chi è morto e lo stato di putrefazione. Le anime che tentano il passaggio sono tormentate, perciò pericolose, arrabbiate e terrorizzanti. Il gruppo, ignaro delle possibili conseguenze, incapace di valutare il rischio, si spinge sempre più in là fino al punto di non ritorno. Il tempo massimo della connessione è di 90 secondi. Superato il limite, lo spirito richiamato resta in una sorta di limbo, sospeso tra la morte e la vita, tra l’ipogeo e l’epigeo, tra il mondo “reale” e l’Ade inconoscibile. I registi (australiani), liberando il macabro della loro fertile creatività, dirigono un teen horror - i codici e gli schemi quelli restano - originale, adulto e crudele. Non edulcorano, non insabbiano l’orrore dentro dinamiche ‘corrette’ e prestabilite. La costruzione delle immagini, più che al cinema americano e occidentale, sembra rifarsi a quello asiatico: i demoni vengono accompagnati dallo sciabordìo dell’acqua (elemento caratterizzante e filosofico della cultura orientale, Dark Water di Hideo Nakata su tutti), gli spiriti appollaiati in un angolo della stanza, mostruosi e ripugnanti, strisciano e si insinuano ricordando certe atmosfere malate di Two Sisters di Kim Ji-woon. Il colore che predomina è il ciano, ambienti e personaggi sono avvolti dalla penombra e dall’oscurità, il decor è asettico e attraversato da superfici lisce e taglienti. Talk to me è un’opera prima: matura, secca, ma non anemica o esangue. I registi sanno dove colpire e come gestire i meccanismi e i tempi della tensione. E mostrano fino in fondo la non catarsi del male. È un horror ‘cattivo’ e non rassicurante. Ne avevamo bisogno.