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TALES FROM THE LOOP

TRAMA

Negli anni sessanta in una zona rurale dell’Ohio è stato costruito un grande acceleratore di particelle che si estende per decine di chilometri nelle profondità della campagna circostante. Negli anni ottanta gli abitanti della zona vivono e lavorano per quello che viene chiamato il “Loop”. Le loro vicende quotidiane e personali saranno stravolte da eventi e paradossi straordinari legati al Loop, tra immense costruzioni industriali, avveniristiche e desuete allo stesso tempo, goffi robot artropodi e misteriosi macchinari abbandonati.

RECENSIONI

È il paradosso della fantascienza nel post-tutto: il presente, per provare ad immaginare un futuro, è costretto a volgere (in)consapevolmente lo sguardo verso il passato. I mondi di domani rappresentati oggi non sono altro che figli di quelli pensati ieri, filtrati il più delle volte dalla dimensione nostalgica (e perversa) del ricordo. Re-make/Re-model, reboot, universi e saghe decennali, ma anche e soprattutto tentativi di ricalcare un immaginario (mai veramente) perduto, alla ricerca di quella necrofila soddisfazione che solo un ritorno ad un passato ideal(e/izzato) può garantire. In questa dimensione, la fantascienza può perfino permettersi di alzare le mani e di abdicare sia al suo intrinseco potere preveggente che alle sue possibilità fantastoriche: resta soltanto una questione di superficie, un calco feticista di immagini, luoghi, mode, situazioni, personaggi, sentimenti, in quella che appare a volte più come una seduta spiritica che come un'esplorazione avveniristica (sì, sto pensando a Stranger Things).

Considerazioni queste, evidentemente banali e superficiali, che avrebbero bisogno di ben altro approfondimento per risultare incisive o quantomeno interessanti. Valgano intanto come mera contestualizzazione, perché Tales From The Loop, con ogni probabilità, si inserisce proprio qui. La serie ideata e scritta da Nathaniel Halpern (tra le altre cose sceneggiatore di diversi episodi di Legion) prende infatti ispirazione dalle illustrazioni retro-futuristiche dell'artista svedese Simon Stålenhag, nel 2014 raccolte e organizzate nel primo dei due libri (l'altro è Things From The Flood del 2016) i cui racconti ruotano attorno ad un misterioso acceleratore di particelle costruito nel sottosuolo della provincia svedese chiamato, per l'appunto, Loop. Le storie narrate e disegnate da Stålenhag appartengono esplicitamente alla dimensione del ricordo, configurandosi come una sorta di viaggio in una memoria fittizia al fine di «catturare ricordi perduti di un'epoca che non c'è mai stata» (sono parole dello stesso autore, poste nei ringraziamenti quasi a chiosa del mondo evocato). La componente ucronica e profondamente nostalgica dell'opera viene dunque filtrata da uno sguardo dichiaratamente soggettivo: childhood memories, a metà strada tra materializzazione fantastica del vivace pensiero del bambino e solida costruzione adulta di un mondo (passato) altro.

Tales From The Loop (serie) parte quindi da queste immagini per riflettere in modo piuttosto lucido sulla deriva ultima di un immaginario, quello contemporaneo, che dopo frenetici decenni di innovazione si ritrova impotente e incapace di smarcarsi dal suo ingombrante passato. Ponendosi quasi come una versione critica del già citato Stranger Things o della parassitaria cultura nerd di tutti i J.J. Abrams là fuori, la fantascienza pensata da Halpern è in realtà la presa di coscienza di una impasse. In questa resa definitiva, che assume il tono disincantato e solenne di un'elegia funebre, siamo costretti a tornare ossessivamente sugli stessi temi (viaggi temporali e interdimensionali, scambi di corpi, dispositivi capaci di fermare o accelerare il naturale scorrere del tempo, robot… c'è tutto il catalogo) perché alla fine della fiera, nel dopo in cui siamo oggi, apriamo gli occhi e scopriamo che non c'è più nulla. Narrazioni che non sono mai state nuove e che non invecchiano mai: una fantascienza folk, definizione il cui paradosso intrinseco mi sembra capace di veicolare tutta l'evidente malinconia crepuscolare del lavoro di Stålenhag prima e di Halpern poi.

Le storie raccontate in Tales From The Loop si inseriscono allora più nella dimensione dei canti tradizionali e delle eterne fiabe per bambini che in una prospettiva di indagine allostorica. Sono vicende che, seppur presumibilmente ambientate nel corso degli anni '80 (e quando sennò), non appartengono davvero a nessuna epoca e a nessun luogo. Il paesino rurale dell'Ohio (slittamento geografico interessante rispetto alle opere di Stålenhag, al di là delle ovvie necessità produttive) al centro della serie sembra attraversare la Storia all'interno di una bolla, un dome quasi impermeabile alle influenze culturali dell'esterno (sono pochissime: la più evidente nel settimo episodio, quando il padre di Cole, ancora ragazzino, assiste ad una proiezione de La maschera del demonio di Bava); The Village: le sterminate pianure e i boschi che circondano la Zona, si perdono oltre l'orizzonte, eppure sono un confine invalicabile. Fuori dall'area di influenza del Loop il tempo non esiste, mentre all'interno scorre in modo arbitrario e soggettivo, governato da luoghi pregni di un misterioso potere esoterico (il fiume dell'ultimo episodio) oppure dai numerosi resti archeologici che sconvolgono le vite dei personaggi. Sono, questi, residui possibili di una società del domani che, pur essendo già collassata, cerca disperatamente un modo per guardare avanti ed entrare finalmente nel futuro promesso (lavorare al Loop è o comunque dovrebbe essere la massima ambizione di tutti gli studenti), mentre continua ad incappare nei fantasmi del passato (di un passato, uno qualunque, tra quelli che avrebbero potuto essere ma che non sono mai stati) con fare sognante e malinconico. In questo senso, l'evidente somiglianza tra lo zaino con cui il padre di Danny comanda il suo avatar robotico nel quinto episodio (ma è presente anche nelle illustrazioni di Stålenhag) e un dispositivo dichiaratamente retro-futuristico e nostalgico come il Robot Kit di Nintendo Labo mi sembra piuttosto interessante ed esemplificativa di quanto Tales From The Loop sia una serie capace di dialogare in modo acceso e critico con il suo tempo.

In tutto questo, quella del loop, del circuito chiuso che ritorna senza sosta su se stesso, è ovviamente un'immagine cruciale e autoevidente, che a ben guardare sembra riecheggiare perfino nella disposizione degli episodi. Sono otto (8: il simbolo dell'infinito rovesciato, rimarcato anche dall'unione delle due "oo" nel logo del progetto), narrativamente autoconclusivi eppure connessi, tutti votati all'esplorazione di tematiche dalla forte vocazione umanista. E ancora: il primo episodio (Loop, diretto da Mark Romanek) mette al centro del discorso le (mancate) responsabilità della figura materna e pare specchiarsi nel quinto (Controllo, di Tim Mielants), che invece indaga il peso delle responsabilità paterne nei confronti della famiglia. Al centro del secondo episodio (Trasporto, di So Yong Kim) c'è non solo uno scambio di corpi tra amici, ma anche l'inconfessabile desiderio di vivere la vita dell'altro; lo stesso accade nel sesto (Parallelo, di Charlie McDowell), con la sola differenza che l'altro del quale si desidera possedere la vita è nientemeno che una versione alternativa di sé. Il tempo è invece al centro del terzo (Stasi, di Dearbhla Walsh) e settimo (Nemici, di Ti West) episodio: nel primo caso lo si vuole sospendere nell'illusione di riuscire ad anestetizzare il suo potere distruttivo su qualsiasi storia d'amore, nel secondo (in cui la stasi assume la forma di un lungo flashback) lo si deve affrontare per fare i conti con le paure della propria infanzia. Infine, il quarto (La sfera dell'eco, di Andrew Stanton) e l'ottavo (Casa, di Jodie Foster) sono accomunati dal tema della morte (rispettivamente del nonno e del fratello di Cole), mistero ultimo e irrisolvibile, contro il quale perfino il Creatore del Loop (un Jonathan Pryce sempre magnetico) non può fare nulla. Gli otto frammenti della serie paiono così suddivisibili in due blocchi da quattro, in un serrato gioco di assonanze che mira a disegnare la chiusura circolare del loop finanche nella sua struttura. Nel movimento di ritorno a casa e di ricerca della madre, l'ultimo episodio è infatti anche il riflesso del primo, rivelando in questa sua insistenza quello che forse è il perno su cui poggia l'intero circuito chiuso della società disegnata da Stålenhag-Halpern: il loop, insomma, come costante ritorno al ventre materno, ciclico e incessante divenire che riporta sempre al luogo delle proprie origini, spazio primo e ultimo di tutte le cose.

Nulla evolve, noi invecchiamo: il tempo scorre in un batter d'occhio eppure ci si ritrova, adulti, di nuovo nei pressi della casa natìa, a contemplare ancora quei giorni di un futuro passato.


Postilla (non) necessaria

Per queste e molte altre ragioni, Tales From The Loop è quindi una serie sicuramente affascinante. Intelligente e (chissà quanto) consapevole di esserlo, capace di interrogare il presente in modo non banale e di leggerne le criticità con sguardo acuto, mai monolitico o accusatorio. Tuttavia, mi sembra anche un'opera in grado di raggiungere questa complessità solamente se si è disposti a fare un passo indietro e a guardare ad un insieme che è potenzialmente molto più stimolante di quanto non lo siano le sue singole parti. Per quanto visivamente accattivante e, a tratti, narrativamente piuttosto piacevole, quello ideato da Halpern è insomma un prodotto molto più interessante da pensare che da vedere, penalizzato forse dall'incapacità di esprimere fino in fondo il sincero rigore stilistico cui aspira e da una scrittura che in alcuni momenti è fin troppo limpida e accondiscendente. L'uso delle (belle ma non memorabili) musiche di Philip Glass e Paul Leonard-Morgan meriterebbe invece un discorso a parte: se da un lato sono sicuramente funzionali ad esprimere la dimessa malinconia di cui sopra, dall'altro la loro onnipresenza finisce per uniformare il tutto in modo abbastanza superficiale e per depotenziare e sfiduciare immagini che sarebbero benissimo capaci di vivere e comunicare in autonomia. Discorso critico sull'appiattimento del sentimento nostalgico nel panorama contemporaneo o poca fiducia nell'attenzione emotiva dello spettatore? Chissà. Ma non andremo oltre.

Meglio dunque farlo questo passo indietro. Si ha solo da guadagnare.