
TRAMA
Un avvocato come tanti lavora e vive solo nel suo appartamento, che è al contempo il suo ufficio e la sua abitazione. Un giorno freddo e piovoso, un uomo vi fa irruzione, tiene un discorso breve e disordinato, e gli consegna un pacchetto che stravolgerà la sua vita.
RECENSIONI
In una Teheran soffocante, sporca, tenebrosa, fotografata in un bianco e nero contrastatissimo, città semiabbandonata, piena di carcasse di animali, un avvocato riceve un pacchetto macguffin che cambia la sua vita. È un tour de force stilistico quello di Keywan Karimi, al suo debutto nel lungometraggio*, una sperimentazione sulle forme in cui la narrazione va ripescata nel fondale del mare visivo in cui tende ad affondare, nella dilatazione spasmodica e ipnotica dei tempi, sottolineata da un sound design curatissimo quanto in costante evidenza. Mentre i dialoghi vengono ridotti all’osso e i personaggi, ammiccando al genere, quasi imitano una maniera, mentre non si tacciono i rumori di fondo (una radio rimanda il bollettino di un mondo in mano alle banche), a dominare è la macchina da presa la cui presenza si impone attraverso lunghissimi movimenti che esplorano gli ambienti, nel lavoro sui riflessi e chiaroscuri, su una composizione ragionata, calibrata al millimetro, sui tagli d’ombra (la scena delle docce, un quadro quasi caravaggesco). Lontano dal cinema iraniano che l’Occidente ha imparato a conoscere, tra Béla Tarr e David Lynch (una latrina come un buco nero nel quale perdersi), Tabl è da un lato un film mentale e onirico, dall’altro un lussuoso catalogo di quadri glaciali, segmenti di un’eleganza talmente ricercata da comporre, a conti fatti, una sorta di parodia formalistica del noir: una sua acuta, anche ironicamente amara, imbalsamazione.
