TRAMA
Mark Renton torna a casa, dopo vent’anni, dopo aver tradito i suoi amici scappando con i soldi. Ritrova Spud e Sick Boy, ai quali la vita nel frattempo ha continuato a concedere poco. C’è Begbie, a cui è andata peggio di tutti, assettato di vendetta. E poi c’è Veronika, la compagna di Sick Boy: giovane, bella e intelligente, nuova influente figura sulle sorti del gruppo.
RECENSIONI
Il rapporto con Danny Boyle è strano, perché alla fine, dalla sua disordinata sintesi di intelligente attitudine visiva e scaltrezza narrativa, tra i confini liquidi dell’opera e dell’operazione, nell’intreccio tra padronanza della messa in scena e stilosa pigrizia, qualcosa resta più o meno sempre; e anche nei casi meno entusiasmanti sono semmai le cadute ad avere, sovente, la meglio sulla mediocrità. Insomma, i 28 giorni dopo e le 127 ore, The Beach e Sunshine, In trance e Steve Jobs sono, insieme al resto, le traiettorie sparse di una filmografia difficile da collocare con precisione, al di là della freschezza di Piccoli omicidi tra amici o dell’astutissimo racconto popolare The Millionaire collezionista di Oscar. E certamente anche al di là del cult. E siamo a Trainspotting, dunque, diventato anche ben oltre i suoi meriti manifesto generazionale che intercettava o anticipava transizioni socioculturali, epoche terminali, futuri ignoti e insicuri. Era una merda, essere scozzesi, gridava Mark Renton, che aveva deciso di non scegliere la vita; e Lust for Life di Iggy Pop abbracciava sardonico il destino del gruppo di amici tossici di Edimburgo, così come avrebbe fatto, per altri versi, molti anni dopo, l’Everytime di Britney Spears con le ragazze americane nella loro vacanza di primavera in Spring Breakers di Harmony Korine. T2 Trainspotting, con ancora John Hodge alla sceneggiatura (mescidando a modo suo l’Irvine Welsh dei libri Trainspotting e Porno), aggiorna al presente, trascorse due decadi, i fili delle vite dei personaggi incontrati nel primo capitolo. Già una decina d’anni fa, peraltro, il progetto di un sequel era stato avviato ma i tempi, per stessa ammissione di Boyle, si erano rivelati ancora acerbi con il rischio di riproporre cose già viste. E oggi, questo T2 non può fare altro che registrare il tempo passato. Ecco il film, può situarsi solo in un punto, non può dire molto di più, e in questo senso è davvero onesto, poco programmatico: il regista non ammicca allo spettatore fan, al ventenne di una volta diventato ora quarantenne. Perché, se il cult era, in fondo, anche un “gioco” cinematografico che per certi versi riusciva persino a rischiarare per attimi l’amarezza e la disperazione di fondo, qui le emozioni sono un palinsesto, sì, anche più ampio e versatile, e la narrazione si sposta su una dimensione più corale, ma tutto – le schermaglie e le direzioni del racconto – risuona e si permea di precarietà in una gradazione svuotata, rovinosa, poiché non si tratta di un già visto, ma di un già avvenuto. Di un film tragico, nonostante le false protezioni dell’ironia. La commedia nera è più involucro di prima, pura forma.
È un universo chiuso in sé stesso, questo Trainspotting degli anni Dieci, è solo la trama di un film, una serie di personaggi che si ritrovano: Mark (Ewan McGregor) ha avuto una vita ad Amsterdam e non è più un tossico, ora ad aiutarlo c’è la corsa su un tapis roulant in Olanda o in mezzo alla natura scozzese; le droghe hanno lasciato intatto il buon cuore di Spud (Ewen Bremner); Begbie (Robert Carlyle) è ancora un violento esaltato, evade per far fuori Mark; Sick Boy (Jonny Lee Miller) cerca di tirare su più soldi con ricatti a luci rosse con la complicità della sua fidanzata Veronika (Anjela Nedyalkova). Il refrain di Choose Life non può non essere aggiornato ai tempi dei selfie e dei social network. Sono arrivati anche figli e nuovi fallimenti. Mark e Sick Boy si intrufolano in una festa di ottusi fanatici religiosi per derubarli e si ritrovano poi sul palco con microfono e pianoforte a improvvisare una canzoncina feroce contro i cattolici; il pubblico li osanna: è l’unico momento autenticamente comico, una scenetta che sembra provenire dal mondo di Matt Groening o di Seth MacFarlane, è una parentesi stranamente, stupidamente felice. Ma anche questo, in fondo, è il pezzo di una drammaturgia che nel suo impianto visivo e musicale non può fare a meno del come eravamo per darsi al presente, per esistere. Era forse l’unico film che Boyle poteva fare. Perfino tenero, affettuoso, il suo film necessariamente più “sincero”. Anche una reunion, d’accordo, ma perché non lasciarli ancora divertire (un altro po’ almeno)? Ché, alla fine, Lust for Life resta sempre un gran bel pezzo!