TRAMA
Yoav, un giovane israeliano, atterra a Parigi con la speranza che la Francia e la lingua francese lo salvino dalla follia del suo paese.
RECENSIONI
Per Roland Barthes gli aggettivi erano la categoria linguistica più povera - e più spregevole. Gli aggettivi inchiodano il reale all'essere e a un determinato modo d'essere, negano a ciò che descrivono l'autonomia (di divenire, prima di tutto, o di avere qualità contraddittorie), dicono che X è proprio così e non può essere nient'altro. Aggettivare è oggettivare. Non a caso Yoav, il protagonista di Synonyms, quando deve descrivere la madrepatria Israele lo fa sparando una mitragliata di aggettivi: "disgustosa, spregevole, ripugnante, maligna". Come a ripagarla con la stessa moneta. I suoi soliloqui procedono per catene lessicali di sinonimi ma ancor più di slittamenti, libere associazioni. Yoav rifiuta categoricamente di parlare ebraico, si esprime solo in un francese da perfezionare ossessivamente perché sta cercando di prendere una nuova identità - o piuttosto, dato che ci troviamo in Francia, una nuova cittadinanza - e vuole passare attraverso la lingua, se è vero wittgensteinianamente che ogni gioco linguistico implica una determinata forma di vita e viceversa.
Yoav è arrivato a Parigi non si sa come con uno zaino in spalla e si trova non si sa come in un lussuoso appartamento completamente spoglio di Rue Solferino, nel cuore di Parigi. La mattina si sveglia completamente nudo scoprendo che qualcuno non si sa come gli ha rubato tutto. Se il simbolismo è fin troppo scoperto è più interessante notare come a Nadav Lapid non interessi giustificare, neppure a posteriori, gli eventi preferendo lasciare al film l'atmosfera di assurdo, di onirico, di slittamento e libera associazione che è la sua qualità migliore. Yoav perde i sensi e viene salvato, resuscitato, rimesso al mondo da una coppia di giovani, ricchissimi, eccentrici bobo, Emile e Caroline. La corrente di desiderio si attiva al primo sguardo sul corpo statuario e trapassato, quasi un Cristo deposto dalla croce, ed è subito The Dreamers. La vera prova iniziatica alla cittadinanza francese non riguarda la laicità dello stato, la Marsigliese, i valori illuministi e rivoluzionari. No: è il ménage à trois. Del resto tutti quei film, quei romanzi qualcosa vorrano pur dire. Anche in questo tuttavia il film imbocca una falsa pista. Se Caroline viene inizialmente marginalizzata da un'attrazione omoerotica che Emile non fa nulla per nascondere e che sembra l'esito naturale e logico di tutta l'entropia del film - da Israele militarizzato e eteronormativo alla Francia libertina e fluida - le cose andranno diversamente a causa di un ulteriore slittamento.
Synonyms gioca su due campi. La patria israeliana - quella della nascita, della terra e del sangue - è rigettata, dissacrata ed evocata da racconti materializzati in non luoghi dove si svolgono scene agghiaccianti e/o grottesche come la cerimonia del conferimento delle onorificenze militari storpiata in "Hannah Montana". Invece la Francia - Parigi, per metonimia - come ogni seconda patria scelta per libera volontà è un costrutto culturale. Non si possono filmare le strade parigine con occhi vergini dopo Godard, Truffaut, Rohmer. Se per esempio il protagonista entra in un locale notturno sappiamo che seguirà una (strepitosa) scena di ballo perché non restano terrains vagues dopo la nouvelle vague. Per ogni sfondo (Notre-Dame, la Senna) si può rintracciare una chilometrica filogenetica dell'immaginario. Quindi bisogna provare a inventarsi un modo, se non nuovo, originale di guardare/filmare. Dal punto di vista tecnico, registico Synonyms è una beautiful mess: camera a mano, piani sequenza, soggettive e false soggettive in cui regista e attore sembrano scontarsi e scambiare ruolo, anche un momento in cui l'immagine si sgrana che si direbbe girato con uno smartphone. C'è di tutto, senza soluzione di continuità. Lo stile di Lapid ricorda (nello spirito, se non nella lettera) quello di Xavier Dolan: iper-inventivo, eccessivo, pieno di idee e invenzioni visive, senza paura di sbagliare per esuberanza. Non sfugge neppure il nome di Maren Ade tra i produttori: come nel cinema della regista tedesca la sgrammaticatura è gesto politico, preziosissimo nell'epoca dei focus group e del cinema algoritmico.
È un film-odissea che segue un uomo sradicato in una città nuova, le sue avventure e disavventure, gli incontri. Quindi è un film di scene. E da buon film freudiano mette in correlazione l'erraticità del linguaggio libero-associativo con il vagare esistenziale tra espedienti (e di conseguenza il rispecchiamento nell'eterogeneità stilistica e narrativa). In girum imus nocte et consumimur igni: Yoav vive alla giornata, raccoglie soldi, vestiti e esperienze dove capitano, passa da addetto alla security circondato da fanatici nel consolato israeliano all'esibizione omo-pornografica nello studio di un fotografo senza perdere l'espressione neutra da Straniero camusiano - l'esistenzialismo, dopo il ménage à trois, come tratto identitario francese autentico. Inevitabilmente il film perde decisamente mordente nell'ultima mezz'ora quando è necessario normalizzarsi e tirare le fila del discorso a proposito di identità e appartenenze, dimostrandosi molto più a suo agio nella pars destruens, nel pedinamento di una deriva, nell'osservazione mimetica di una decostruzione, di cosa resta a un corpo senza organi quando si spoglia dei cascami identitari mentre il discorso politico più letterale (sulle difficoltà della re-identificazione) appare un corollario necessario ma un poco forzato e il simbolismo facile delle ultime scene poco stimolante. Del resto, perdersi è sempre la parte più bella e divertente.
Lapid gira un film dichiaratamente autobiografico. "Nato in Medio Oriente per errore", laureato in filosofia a Tel Aviv, fuggito disgustato a Parigi dopo il servizio militare: la storia è sua. E dice che è relativamente facile abbandonare l'identità biologica anche quando viene a cercarti come fa il padre del protagonista - il quale comunque, curiosamente, non fa che imbattersi in memento delle radici come la ragazza libanese o ebrei sempre più assatanati e Freud su questo avrebbe qualcosa da dire. Più arduo è riuscire ad aderire a una identità culturale, scelta, che si desidera disperatamente, come a una seconda pelle. Non basta padroneggiare il dizionario Larousse o rispondere correttamente ai quesiti per la cittadinanza per essere francesi. (Ma poi vorrà dire qualcosa "essere francesi"?). È possibile gettare l'uniforme dell'esercito e l'autodefinizione via mascolinità demenziale che implica ma non si può smettere di esporre la fisicità che riempe l'inquadratura, la virilità esplosiva che Yoav / Tom Mercier si porta appresso lungo tutto il film. Anche lo chicchissimo cappotto color senape, evidentissimo oggetto transizionale del desiderio omosessuale di Emile, diviene una seconda uniforme. Il film si muove quindi attraverso temi di estrema attualità nella nostra epoca dominata dal revanchismo identitario trovandosi, serendipicamente, diviso tra nazioni-simbolo come la Francia (ultimo bastione di uno stare insieme da cittadini cosmopolita, fluido, laico e tollerante stretto nella morsa da Rassemblement National, terrorismo islamico e gilet jeaune) e Israele (stato etnico, anche ufficialmente dal luglio 2018, e militante/militare come nessun'altro). Eppure dà il suo meglio quando si perde trovando nel grottesco, nel nonsense e nel surreale l'improbabile unico ponte tra culture tra ebraismo yiddish e esistenzialismo Rive Gauche.
Orso d'oro al Festival di Berlino 2019.
