Drammatico

SYNDROMES AND A CENTURY

Titolo OriginaleSang sattawat
NazioneThailandia/Francia/Austria
Anno Produzione2006
Durata105'

TRAMA

Amori in corso in corsia.

RECENSIONI


Un film diviso in due: due ospedali, due mondi, forse due stagioni. Storie d'amore in nuce, appena abbozzate nella prima parte, che lo spettato vorrebbe vedere confermate nella seconda. Ciò non accade: gli incontri amorosi su sfondo bucolico (tra un'infermiera ed un paziente, tra un dentista e un monaco buddista) scompaiono nella "variazione" urbana. Rimane il freddo rituale del consulto, della prescrizione. La seconda parte, infatti, raggela la materia già abbordata nel primo segmento, declinandola in un profluvio di accadimenti rispondenti piuttosto a suggestioni “spazial-epidermiche”, squarci di geometrico rigore in cui predomina il bianco asettico e un innaturale brusio meccanico a fare da costante tappeto sonoro. Il corpo "malato" e curato dall'amore viene progressivamente rimpiazzato dall'automa, dalla macchina, dall'artificio. L'atmosfera diventa sempre più rarefatta, gli spazi sempre più ristretti, le grandi stanze ipertecnologiche si tramutano in cunicoli, corridoi lunghi e stretti.
Sul tutto cala progressivamente una densa nebbia, fumi forse tossici. Nel finale, la macchina da presa viene letteralmente risucchiata da un tubo misterioso: è il tramite metaforico tra il dentro e il fuori, tra l'alienazione del corpo sottoposto al controllo medicale e l'alienazione del corpo nell'attività fisica, nel fitness praticato in un angolo verde incorniciato da edifici freddi come la morte. Weerasethakul ci parla di corpi imprigionati, imbrigliati; di barriere architettoniche e mentali; dell'ospedale come "state of mind", come condizione. In definitiva, ci accompagna in un viaggio ciclico, ripetibile all'infinito e perciò “vizioso”, in cui una liberazione/purificazione, quella del corpo, non sembra più possibile: ora menomato, ora iperattivo, è pur sempre sottoposto, nella società moderna, ad una disciplina alienante, che ha contribuito a rompere l’equilibrio e la perfetta simbiosi tra anima e carne. Anime perdute in corpi separati da un mondo che non è più natura, che non ha più nulla di naturale.

Durante la visione di un film ci sono evidenti segnali del corpo che non vanno trascurati. Cominciare a muoversi sulla poltrona incapaci di trovare la giusta posizione. Interessarsi con morbosa curiosità all'architettura della sala soffermandosi sui dettagli del soffitto. Perdersi negli occhi a mezz'asta del vicino dormiente. Tutti campanelli di allarme che evidenziano come il film passi in secondo piano. E se non è più il film a essere centrale all'interno di una sala cinematografica, qualcosa ha contribuito a spezzare l'incantesimo. Potrebbe essere la scarsa competenza dello spettatore, ma anche l'incapacità dell'opera di rendersi comunicativa. Tra questi estremi, le sfumature possibili sono tante. Sta di fatto che il lungometraggio dell'impronunciabile Apichatpong Weerasethakul (già vincitore a Cannes 2004 del Gran Premio della Giuria con "Tropical Malady") si colloca in un'area di estraneità. Due le storie che si incrociano. Due gli sguardi che si incontrano, accavallandosi per un po' per poi separarsi e procedere per strade autonome e differenti. Ma non è la peculiarità del punto di vista il fulcro di un racconto che, attingendo alla biografia personale del giovane regista (la storia d'amore dei suoi genitori, entrambi medici), pare cullarsi in un minimalismo così ricercato da risultare forzato. Lunghi piani sequenza, macchina da presa spesso fissa, campi lunghi a impedire di ingigantire dettagli e stati d'animo, scarti temporali, parallelismi e indecifrabili simbolismi. L'ipnosi che ne deriva non è mai catartica e i frequenti ribaltamenti narrativi non escono da una patina di intellettualismo che offusca qualunque ipotesi di coinvolgimento. Diciamo che non basta il suono di una nota fissa per creare suggestione. Di positivo c'è l'assenza di grevità che, pur nella resa limitata, si lascia apprezzare. Almeno nelle intenzioni.