TRAMA
In seguito alle cause intentate da alcuni adolescenti americani, il regista Morgan Spurlock si lancia in un esperimento: mangiare esclusivamente da McDonald’s per un mese. Tre pasti: colazione, pranzo, cena.
RECENSIONI
L’inchiesta soggettiva e sarcastica, impegnata e sottilmente incazzata ha fatto da scuola: dagli epigoni di Michael Moore spunta questo ragazzo americano, filmaker indipendente di 33 anni, che inquadra nel mirino il simbolo yankee per eccellenza. E ci va giù pesante: senza peli sulla lingua (al massimo qualche capello nell’insalata...), alla domanda: fa davvero tanto male? risponde alternando il suo pellegrinaggio di fast-food in fast-food con esami clinici che testimoniano il peggioramento dello stato fisico, toccando il genere dell’intervista all’esperto (nutrizionisti, medici, avvocati) e l’ammicco populista alla gente di strada. Dinanzi a questa ricetta, la platea è testimone di una metamorfosi kafkiana: da personaggio attivo e vitale a fancazzista apatico sempre in orizzontale (con “il mio litrozzo” di Coca-Cola tra le mani), il passo è fin troppo breve. Con tono solo apparentemente leggero – ed alcune virate improvvise che tradiscono la gravità della situazione, vedi il conato in automobile – l’autore filma la propria deriva personale: ingrassa quasi 10 chili, disegna squarci di furiosa ironia (gli slip a stelle e strisce), balla sorridente sulla tomba dell’american dream – il culmine è la sequenza, di squisito cinismo, in cui la perfetta famiglia Usa non è in grado di recitare il pledge to the flag ma riproduce a memoria l’inno del cheeseburger. Incluso nel prezzo, il disvelamento dei classici altarini: obbligatorio un pizzico d’indignazione quando Spurlock fa luce sulla condotta dei giganti dell’alimentazione che, in virtù di una politica lobbistica quasi criminosa, introducono i loro cibi nelle scuole elementari per “abituare” i pargoli alle micidiali pietanze (anche se non ti mordono sul collo, THE ADDICTION è più vicina di quanto sembri).
Seppur superando in sottigliezza e (s)drammatizzazione l’invettiva controversa di un qualunque FAHRENHEIT 9/11 – che finiva per affogare nella lacrima e nella retorica – grazie ad una catena di trovate vagamente geniali (i cuccioli dell’asilo scambiano Gesù Cristo per George W. Bush, ma McDonald’s è un punto fermo!), tra cui si distinguono le splendide caricature che scorrono sullo schermo (impagabile The Last Dinner), talvolta il documentario acquista un tono educativo e dottrinale, sottoforma di peana alla buona alimentazione, dove lo spettatore è invitato a sedersi a lezione per ascoltare il maestro. Da una parte il contenuto è fuori discussione, dall’altra chi odia il tono predicatorio dell’ultimo Moore potrebbe facilmente storcere la bocca (specie nello scontato sipario cimiteriale, con voce off petulante e superflua). SUPER SIZE non è certo Errol Morris: a lungo pacato ma vigoroso, apertamente fazioso con qualche compiacenza di troppo, un alone indipendente (non solo nominale) che lo rende interessante ma vittima della dicitura, stavolta più che mai, “solo per stomaci forti”.
Miglior regia al Sundance 2004.

Michael Moore ha definitivamente sdoganato il documentario imponendolo come "genere" appetibile al mercato. Insieme al voltafaccia della critica (si sa, la spocchia è per sua natura elitaria e non gradisce la condivisione di una platea mondiale), l'avvenimento ha determinato la nascita di un buon numero di epigoni, capaci di cogliere l'attimo e di proporre riflessioni non banali. L'acuto Morgan Spurlock costruisce così un simpatico monumento al proprio ego attraverso la messa in pratica (e in scena) di un geniale, quanto pernicioso, esperimento: nutrirsi per trenta giorni (colazione, pranzo e cena) esclusivamente da McDonalds. Menù "super size" a base di fritti, zuccheri, carne di derivazione ignota e milioni di bollicine. La "grassissima" opportunità è lo spunto per mettere il dito nella piaga dell'alimentazione, soprattutto americana, ovvia causa del nuovo male del millennio: l'obesità. Spurlock ci sa fare e dimostra di conoscere i meccanismi, anche cinematografici, per conquistare la complicità del pubblico. Il giovane cineasta alterna così momenti riusciti (la famiglia che conosce il jingle di McDonalds ma non ricorda l'inno nazionale; i bambini che non distinguono Gesù da Bush ma riconoscono alla perfezione il clown, lugubre simbolo della multinazionale americana) ad altri un po' più forzati (il subentrato affaticamento del protagonista abbinato a un malessere più sbandierato che evidente), limitando al minimo le cadute di stile (il capello trovato nel cibo). Per fortuna riesce anche a spostare l'attenzione verso la pessima educazione alimentare, cuore del problema. Un disastro che si abbatte nell'indifferenza dei politici, spesso conniventi con i colossi alimentari, e grazie all'unico reale fattore in grado di spostare le masse planetarie: il marketing. Un potere fuori da ogni controllo che aggancia biecamente il cliente fin dall'infanzia, facendo leva proprio sulla volubilità dei criteri selettivi delle giovani generazioni, il più delle volte ago della bilancia nelle decisioni familiari. Ciò che però alla fine risulta meno efficace nell'esposizione di Murlock è, paradossalmente, proprio il perno del documentario, e cioè l'esperimento di partenza. Intanto perché il suo focalizzarsi esclusivamente su McDonalds lascia trasparire un punto di vista minato dall'ideologia (e, diciamolo, assai modaiolo). È come se per spiegare che il fumo fa male ci si fossilizzasse unicamente su una specifica, vendutissima, marca di sigarette o, per mettere in evidenza i danni dell'etilismo, si prendesse di mira il maggior produttore di whisky. Quanto a qualità del cibo, più o meno tutti i fast-food si equivalgono e l'uno per tutti rischia di ridimensionare l'universalità della questione. Inoltre, si deve comunque ricordare che si tratta di industrie e non di opere di bene. Come tali, vendere il prodotto in misura esponenziale è il loro "sporco" lavoro. Il problema reale, oltre a scelte strategiche eticamente non condivisibili, sono i vuoti istituzionali, l'assenza di informazione e, soprattutto, la passività del consumatore finale, quasi fiero della sua ottusità. Ad inquinare ulteriormente la forza del documentario, anche il silenzio nei confronti di una semplice quanto fondamentale regola: qualsiasi mono-alimentazione può essere letale per il fisico. Mangiare solo tortellini (pur se fatti a mano con alimenti naturali di prima scelta), o nutrirsi solo con cioccolata pregiatissima, può avere conseguenze devastanti. Purtroppo i fatti e i numeri dimostrano che una presa di coscienza risolutiva è ancora ben lungi dall'essere anche solo elaborata e che il consumatore pensa di scegliere quando la maggior parte delle volte si limita ad eseguire ordini, non rendendosi conto che con il solo atto di "acquistare" o "non acquistare" può ancora incidere sui bilanci delle multinazionali. E allora, oltre allo scontato consiglio di aprire gli occhi, ben vengano gli spunti offerti da Morgan Spurlock e dal suo tour de force alimentare.
