Commedia, Horror, Recensione

SUPER 8

Titolo OriginaleSuper 8
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2011
Durata112'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia
Costumi

TRAMA

1979, Ohio. Alcuni adolescenti appassionati di cinema stanno girando un cortometraggio in super 8 quando assistono al deragliamento improvviso e misterioso di un treno che darà  inizio ad una catena di eventi apparentemente inspiegabili.

RECENSIONI

In una bellissima scena del sottovalutato The Last Tycoon (Gli Ultimi Fuochi) di Elia Kazan, Monroe Stahr, il giovane titano della Hollywood dell’Eta dell’Oro interpretato da De Niro, spiega a uno sceneggiatore in crisi come si crea una storia da film. Lo fa improvvisando sul momento un frammento d’intreccio, una scena di suspense in cui una donna misteriosa entra circospetta in una stanza, poi distrugge i suoi guanti in una stufa, mentre un uomo nell’ombra la spia. Quando De Niro interrompe l’esercizio, lo sceneggiatore, catturato – come anche lo spettatore – dalla malia dell’azione, fa la domanda più ovvia, “Come va a finire?”. De Niro risponde di non averne idea. Dice: “I was just making movies”, stavo solo facendo cinema. Quest’idea affabulatrice di fare il cinema, secondo cui l’intenzione dell’opera è quella di catturare l’attenzione dello spettatore e di trattenerla per la durata del film (intrattenere, si dice) e la dedizione è tutta per gli elementari meccanismi emotivi che servono questo scopo, è sempre stata la favorita dell’industria (da Monroe Stahr – o i suoi equivalenti nella vita reale – in avanti) ed è sempre stata anche la favorita del pubblico. Anzi, è stata favorita dall’industria proprio in quanto favorita dal pubblico, per quel legame scomodo ma robusto che c’è tra capitalismo e democrazia.
Tuttavia, com’è noto, per delle complicate declinazioni della proprietà transitiva (che ovviamente qui non staremo a dibattere), che hanno portato a legare l’intrattenimento al capitalismo e l’arte alla rivoluzione e pertanto a opporre, inesorabilmente, l’arte all’intrattenimento, quella stessa potente idea di cinema è presto caduta in gravissima disgrazia intellettuale. Colpa anche, c’è da dire, di una specie di film d’intrattenimento, il blockbuster di genere (d’azione, avventura o fantascienza) che è piombato a rompere le uova nel paniere della critica, con immensa forza restauratrice, proprio mentre Hollywood aveva deciso di assecondare il vento della controcultura.

È infatti il 23 giugno 1980 quando Pauline Kael, la mitologica critica del New Yorker che  nel 1967 con la sua recensione di Bonnie and Clyde (Gangster Story) di Arthur Penn aveva creato il mood intellettuale per la ricezione critica della New Hollywood, leva il suo drammatico lamento contro la mediocrità del cinema americano di quegli anni, lo strapotere dei grandi conglomerati industriali che stavano inglobando gli studios, la dittatura spietata dei numeri. C’era infatti stata una stagione felice, in cui un manipolo di autori malati di cinema (e di cinema europeo) avevano salvato dall’estinzione una Hollywood moribonda, scippando il controllo dell’opera – sull’onda delle teorie di Truffaut e compari – agli ormai vecchissimi magnati dell’industria e ai loro spaesati manager. C’era stato il suddetto Bonnie and Clyde e poi c’erano stati Scorsese, Coppola, Cimino, Schrader, Polansky, Hopper, Altman. Ma nel giro di qualche anno gli studios avevano trovato un nuovo, formidabile modo per tornare a fare immensi profitti col cinema. E presto una nuova generazione di padroni e produttori, che di cinema sapevano poco o nulla, avrebbe ripreso il potere dalle mani dei novelli Autori. Gli anni ottanta erano alle porte.

Chi aveva mostrato all’industria la nuova via del denaro? Steven Spielberg e George Lucas, con Lo Squalo (1975) e Guerre Stellari (1977), avevano avviato la ricostruzione dei generi decostruiti dai più sofisticati autori della Hollywood Renaissance e, battendo ogni record d’incasso, avevano preparato il terreno per una nuova, profonda trasformazione del business. Il film di Lucas, in particolare, aprì la strada a inedite forme di sfruttamento commerciale dell’opera cinematografica (romanzi tratti dallo script, t-shirt, pupazzetti) e mostrò al mondo – come ebbe poi a dire John Milius – che c’era un’impensabile quantità di denaro là fuori che poteva essere catturata dall’industria del cinema e gli studios non poterono certo resistere a questa scoperta.  Ma soprattutto, Spielberg e Lucas avevano tentato di restaurare l’innocenza perduta della Hollywood Classica, la rivitalizzazione dell’intreccio, la centralità della narrazione tradizionale, del coinvolgimento elementare e integrale nella visione, dell’affabulazione. Come scrive Peter Biskind nel suo appassionato racconto dell’ascesa e della caduta della New Hollywood (Easy Riders, Raging Bulls, New York 1998): “Lucas e Spielberg riportarono il pubblico degli anni settanta, venuto su sofisticato grazie a una dieta di cinema europeo e della New Hollywood, alle semplicità dell’Età dell’Oro del cinema pre-1960 […]. Avevano marciato all’indietro attraverso lo specchio, producendo film che erano l’opposto speculare dei loro equivalenti della New Hollywood. Come la Kael per prima indicò, stavano facendo regredire il pubblico all’infanzia, ricostituendo lo spettatore come bambino per poi inondarlo con suoni e spettacolo, cancellando l’ironia, l’auto-consapevolezza estetica e la riflessione critica”.
L’esercizio tranchant con cui Spielberg e Lucas possono essere ritenuti i colpevoli originari di una portentosa rinascita, perversione ed egemonia del cinema da intrattenimento (e dell’idea e prassi produttiva del cinema come intrattenimento) ci consente di riprendere e chiudere il paralogismo accennato più sopra: se l’arte (e qui intendiamo l’arte cinematografica o il cinema come arte) è opposta all’intrattenimento, allora Steven Spielberg è l’ideologo dei nemici dell’arte.

Questo bignamino storico è certo sbilenco, manicheo e semplicistico. Ma spiega bene il perenne disagio critico che vive l’opera di Spielberg, nonostante la (anzi, seguendo il filo fazioso di cui sopra, proprio a causa della) enorme portata storica e commerciale dei suoi film. E introduce anche il curioso paradosso cui dà vita Super 8 di J.J. Abrams, che riassumendo la reazione avuta da parecchi spettatori potrebbe essere definito come il film più spielberghiano che Spielberg non abbia mai girato. Jeffrey Jacob Abrams è un professionista dell’intrattenimento televisivo e cinematografico. Co-creatore di Lost e Fringe, creatore di Alias, sceneggiatore di Armageddon, sceneggiatore e regista di Mission Impossible III, produttore di Cloverfield e regista di Star Trek. Con Super 8, apertamente e vigorosamente ispirato al cinema di Spielberg (che qui fa il produttore) e ai più famosi summer movies della Amblin degli anni ottanta, Abrams non dà solamente seguito a un suo personale percorso (fantascienza, monster movie, nostalgia, blockbuster) ma tenta anche un’operazione più articolata che ha a che vedere con l’idea del cinema e la passione per il cinema.

Super 8 vuole infatti essere, prima di tutto, un appassionato atto d’amore per il cinema. Una passione basica, scevra di arzigogoli ideologici, vitale, immediata e disordinata. La stessa passione sgangherata dei protagonisti adolescenti e che anima il loro cortometraggio horror amatoriale, The Case, che scorre per intero a un certo punto dei titoli di coda. Il titolo del film (e la passione cinematografara dei ragazzi, che fa poi da innesco per l’intreccio principale) è immediatamente programmatico. Abrams sbriga in fretta i convenevoli e ci preannuncia quello che stiamo per vedere: siamo nel 1979, siamo nella suburbia del Midwest americano, c’è un gruppo di protagonisti ragazzini e s’intuisce che ci sarà un mistero e una grande avventura. In verità, appena le prime inquadrature ci riassumono il tono della pellicola – che sembra l’estratto quintessenziale di tutta un’epoca di “film di ragazzini” da E.T. a I Goonies, da Navigator a Explorers – sappiamo già tutto quello che stiamo per vedere. Vedremo la piccola cittadina della provincia americana, coi suoi valori tradizionali lontani dalla boheme metropolitana contaminata con le sperimentazione europee. Vedremo delle solide famiglie di lavoratori americani che tirano avanti anche tra mille problemi  e cercano di proteggere i loro figli dalle asperità della vita adulta. Vedremo un gruppo di quattordicenni dal cuore puro, curiosi della vita, irrimediabilmente attratti dai misteri e dall’avventura, dai modellini e dal filmmaking artigianale, dai mondi fantastici e dal potere dell’immaginazione. Vedremo adulti distanti che scioglieranno i loro nodi; e cattivi apparenti che erano soltanto creature sofferenti. Vedremo infine i ragazzini che crescono e che imparano una lezione, uniti dall’amicizia e spinti dal coraggio, prima che l’estate finisca.

Gli elementari meccanici ed emotivi di quel filone di “film di ragazzini”, con la loro connotazione conservatrice, offrivano ai coetanei un’avventura cinematica che pur evadendo dall’ordinarietà della vita di provincia, s’integrava in quell’ideale equilibrio comunitario e ne celebrava i valori (o, anzi, la loro restaurazione contro una minaccia esterna). Gli antagonisti hanno sempre il volto aggressivo dell’industria, dell’esercito o del governo federale, non tanto per ragioni di lotta anti-capitalistica, quanto piuttosto in uno sforzo di resistenza contro l’urbanizzazione e il progresso, in piena sintonia con l’essenza antimoderna ed esoterica di tutte le fiabe magiche. Lo stesso cocktail di suggestioni offriva (e offre) ai più grandi (cioè a quelli che, volenti o nolenti, nel loro piccolo, hanno dovuto finalmente cedere al progresso e alla fine della magia) un efficace caleidoscopio nostalgico, sincero e privo di qualsiasi ironia. La nostalgia ricercata da Abrams è, invece, di un grado diverso. Non tanto per la sua commerciale programmaticità, che c’è anche nei modelli degli anni ottanta. Quanto per la scoperta e ricercata consapevolezza di essere un revival, un omaggio, una riproduzione inautentica. Tutta la concitazione tecnologica che attraversa Super 8 è un corollario marginale: il disastro ferroviario, il mostro, le automobili risucchiate nel vuoto non sono il cuore della questione. Il cuore della questione è la riproduzione esatta, si direbbe filologica, di un corpus stilistico, retorico e narrativo che faceva del coinvolgimento emotivo e della innocenza narrativa la sua essenza. Ma si può essere innocenti riproducendo, con esorbitante auto-consapevolezza estetica, l’innocenza di trentadue anni fa? Abrams, a ben vedere, giocherella col doppio-fondo, volutamente malcelato, del suo giocattolo, intrattiene i ragazzini ma soprattutto titilla i trenta-quarantenni con una sfacciata operazione che assomiglia un po’ a una festa anni ottanta in costume, coi film di Dante, Zemeckis e Spielberg proiettati sulle pareti e My Sharona come pezzo di apertura per riempire la pista. Alla radice, però, c’è la stessa scienza magica: il calcolo emozionale affabulatore, l’ipnosi regressiva.

Al netto del dilemma ideologico e della diatriba teorica, c’è però una prova assai più immediata, che Super 8 supera solo a metà: l’efficacia del congegno. La prima metà del film di Abrams sfiora il miracoloso: un miracolo futile e ingannevole, ammaliatore e narcotico, ma pur sempre magico. Il film ha il respiro e la sottigliezza emotiva dei grandi racconti e il senso fortissimo di deja-vu, incredibilmente, non ha la sostanza della riproduzione, bensì del ricordo, del tuffo del passato, della fine dell’infanzia. Lo sviluppo, però, nonostante un gruppo di attori ragazzini assai talentuosi, è assai meno solido e coerente, i subplot si incastrano maldestramente in qualche punto, certi snodi sono rabberciati e la magia – si scopre – era tutta interamente nell’illusione retrò di una regressione non solo emotiva ma anche fisica, spazio-temporale. Il grande cinema affabulatore, il cinema di Monroe Stahr, parla di uomini e donne, di personaggi vivi e ricchi che saltano fuori dallo schermo. Abrams ci parla invece di cinema, ma vorrebbe pure che amassimo le sue creature: è un po’ troppo, in verità. L’azione non riesce a incardinarsi appieno sui personaggi, che mostrano meno rotondità del necessario. L’illusione ottica mostra i suoi limiti, ma a volte è bello fingere di farsi ingannare fino in fondo: una volta tanto ne vale la pena.

Il trailer iniziò ad invadere la rete quasi un anno fa. Poche immagini, tanto mistero, due certezze: J.J. Abrams e Steven Spielberg, il primo alla regia e il secondo alla produzione. Bastava e avanzava per trasformare un film in un evento: Abrams e Spielberg, due attaccanti d'area, due figure invadenti, forse troppo per coabitare in un progetto comune. L'iniziativa porta con sé la garanzia del successo, la certezza del botteghino celata dietro quei nomi, marchi di fabbrica, brand da vendere: il signore che nelle precedenti tre decadi ha stravolto maggiormente l'assetto produttivo hollywoodiano in coppia con l’autore che, con la sua transmedialità, riesce a far parlare di sé ad ogni piè sospinto. Il legame tra i due  ha cominciato a venir fuori, grazie ad interviste astutamente rilasciate dall'autore di Lost, come una sorta di discendenza artistica, un riconoscimento nostalgico al padre artistico di una generazione intera. Il modello è il cinema giovanile degli anni Ottanta, quello messo in piedi da Spielberg, Lucas e adepti, quello che ha riportato a Hollywood l'innocenza e il sogno dopo la cupezza del decennio precedente. E.T., I Goonies, Incontri ravvicinati del terzo tipo, I predatori dell'arca perduta, Gremlins, Poltergeist, Ai confini della realtà, Ritorno al futuro, sono opere chiave per l'interpretazione di Super 8.

Il modello spielberghiano si avventa sul film come uno schema fin troppo collaudato, come una formula prestabilita, fin dalle prime caratterizzazioni, formali e contenutistiche: bambini in bicicletta, assenza delle madri, conflitti tra padri e figli, avventure giovanili, prepotenza dello straordinario sull'ordinario.
Di sicuro c'è che gli anni Ottanta sono tramontati portandosi dietro le urgenze artistiche e spettatoriali dell'epoca, lasciando a noi l'interrogativo su quale sia il senso (oltre che quello nostalgico) dell'opera. La risposta (o aspettativa) più immediata si pone sotto forma di domanda: cosa rimane di quel preciso filone cinematografico oggi e cosa ci restituisce di quell'innocenza lo sguardo di un regista contemporaneo? Abrams prova a rispondere mettendo sul tappeto una delle sue tematiche preferite, il rapporto tra realtà e finzione, tra quotidiano e spettacolo. Così come in Cloverfield dove gli effetti speciali del disaster movie erano girati con la più realistica delle riprese (videocamera digitale a mano, ovvero una soggettiva perenne), in Super 8 l'autore sembra inizialmente voler fare del rapporto tra reale e finzionale, specie in relazione al trauma privato (morte della madre), il suo perno centrale. Al funerale viene accostato il corto in super 8 sugli zombie, all'amore nel cinema quello nascente tra i due protagonisti, al mostro che genera il panico il cinema catastrofico, al rifiuto di recitare in film dell'orrore la paura che possano tramutarsi in realtà.

Inizialmente. Poi il treno deraglia e sfumano gran parte delle aspettative riposte nel film, che dimostra tutta l'inadeguatezza del “ticket” Abrams-Spielberg, facendo emergere come il primo, nel tentativo di plasmarsi sulla poetica del secondo, finisca inevitabilmente per banalizzarla: nel cinema del regista di Cincinnati l'essere messi in condizioni stra-ordinarie è quasi sistematicamente l'espediente per far detonare i confitti esistenziali e familiari dei protagonisti; in Super 8 Abrams inverte la direzione trattando i rapporti tra personaggi come semplice e abbozzata caratterizzazione, che ha come unico scopo quello di riempire lo spazio tra un inseguimento e un'esplosione, in un susseguirsi di azione depauperata e fine a sé stessa. Dopo un inizio abbastanza promettente si assiste ad un incessante svuotamento della storia che relega i temi presentati inizialmente al rango di tessere bidimensionali interscambiabili, che tornano tutte insieme nel finale (dal ritorno del padre, all'amore per l'amica/sorellastra, dal complotto governativo al rapporto simbiotico con l'altro da sé) in cui la regia di Abrams, ben lungi dalla sensibilità del (suo) maestro e produttore, si tuffa nel peggior patetismo.

Abrams si conferma autore pratico, teorico e “critico”, capace di imporre il proprio immaginario come chiave di lettura, e insieme hic et nunc, della cine-fantascienza (e non solo) contemporanea. Nostalgica operazione di recupero, si potrebbe anche dire, ossequiosa spielbergata prodotta da Lui in persona. Ma non esattamente. Super8 è qualcosa di più complesso e problematico. Certo, il riferimento all’opera di Spielberg è evidente, ma è un riferirsi analitico, riflessivo e smaccatamente autoreferenziale. Ambientato nel 1979, il film si colloca a metà strada tra Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo (1977) ed E.T. (1982), che appare come referente privilegiato. I punti di contatto sono autoevidenti, benché sottoposti a un significativo slittamento che adegua il testo al contesto socioculturale contemporaneo: i protagonisti sono bambini ma più cresciuti e smaliziati rispetto a Elliott & C. L’Extra Terrestre abiura le carinerie del suo antenato, è sì una vittima per molti versi omologa ma purtuttavia mostruosa, irascibile e antropofaga.

Non sono differenze da poco. Spielberg aveva fatto affacciare sulla terra i simpatici alieni di Incontri, cinque anni dopo ne aveva mandato uno in vacanza da noi per consolidare l'amicizia e chiudere con un inno all'accettazione del diverso, in un tripudio di ottimismo, innocenza e buoni sentimenti. Abrams finge di seguire le stesse coordinate ma ribalta le prospettive, mentre afferma il suo status autoriale: Super8 è, in realtà, il suo Incontro Ravvicinato con l'Alieno. E.T., invece, J.J. l'ha già ideato e prodotto: è Cloverfield, il film in cui l'Alieno precedentemente incontrato, anni dopo, torna sulla terra. E non torna in pace, ma cresciuto, incazzato e deciso a farcela pagare. Cara. Super8 non sarebbe, insomma, il nostalgico recupero in extremis (e oltre) di un Cinema consegnato alla storia dello stesso, quanto una sua asettica (eppure funzionante) riproposizione che contiene già, in nuce, l'ineluttabile tragicità dell'epilogo del/nel film precedente/successivo (Cloverfiled). Epilogo di un certo Cinema, certo, ma anche di un'Epoca.

Basta vedere, tra l’altro, a quale tipo di tematizzazione viene sottoposto l’elemento metatestuale della riprovisione “casalinga”. In Super8, il film nel film è simpatico vezzo di contorno, confortante tuffo nel passato che permette anche di costruire piccoli abissi che citano “altri” (l’esordio della piccola Elle Fanning in The Case è evidente doppio del provino di Naomi Watts in Mulholland Drive). In Cloverfield, il metatesto si mangia (rectius: è) il testo. The Case è innocente e innocua chincaglieria cinefila, mentre il video-operatore di Cloverfield riprende, semplicemente, la Verità, cinefila anch’essa ma virata all’Apocalisse della Visione.

 

J.J. Abrams conosce bene lo stile dei seminali film per l’infanzia di Steven Spielberg che produce: con l’amico Matt Reeves (Cloverfield: anche qui si anticipano i danni rispetto alle fattezze del mostro) curava il restauro dei suoi primi corti amatoriali, alcuni dei quali simpaticamente sgraziati e naif come quello proposto dopo i titoli di coda. La sua opera è un affettuoso omaggio, fra temi, protagonisti, inquadrature e commento sonoro alla John Williams, agli stilemi del cinema per cui Spielberg era il Re Mida negli anni ottanta. Un’avventura fantastica per un gruppo di ragazzini di provincia come nei Goonies, l’E.T. da proteggere dai militari, il finale da Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, il sapore mystery/horror/fantasy delle serie Racconti di Mezzanotte e Storie Incredibili: mischiati, però, all’orrore dei B-movie anni cinquanta e ai gusti moderni (il target è giovanile, non adulto nostalgico) fra effetti speciali mirabolanti da esperienza Imax (la creatura è digitale, ma tutto ciò che vola per aria è ripreso dal vero) e un tocco del tutto personale, alla Lost, per gusto del mistero, dialoghi che dicono e non dicono, fenomeni soprannaturali mai spiegati ed una grande capacità nel cavalcare le emozioni dello spettatore curando la recitazione degli interpreti e la chimica fra caratteri ben delineati. Per ansia di affabulazione nel compiacere il pubblico di riferimento, semmai, si rompe la magia della sospensione d’incredulità quando i piccoli vanno a salvare la bella dal mostro e i grandi scompaiono inverosimilmente di scena.