Drammatico, Focus, MUBI, Recensione

SUNDOWN

Titolo OriginaleSundown
NazioneFrancia, Messico, Svezia
Anno Produzione2021
Durata82'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Una ricca famiglia britannica in vacanza ad Acapulco viene richiamata, per un lutto, nel Regno Unito: il delicato equilibrio della famiglia, apparentemente affiatata, viene sconvolto una volta per tutte.

RECENSIONI

Qualche giorno fa sull’isola di Barù, a sud di Cartagena, un commando armato, giunto via mare, ha ucciso Marcelo Pecci, magistrato paraguaiano, impegnato nella lotta anti narcos.
Una scena strutturalmente simile, ma in realtà dall’apparenza più affine a un regolamento di conti tra bande rivali, contrappunta una placida giornata in riva al mare, in Sundown, ultimo lavoro di Michel Franco, presentato in concorso alla 78ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Però in questa particolare storia non cambia nulla. Ciò che si potrebbe presumere in grado di turbare l’equilibrio del protagonista, uomo la cui vita è avvolta in una nebbia che, tra un simbolismo e l’altro, scopriamo essere anche cognitiva, lascia le cose come stanno. Del resto la cosiddetta sindrome del tramonto (sundowning), sorta di irrequietezza che si manifesta, specie nei malati di Alzheimer, quando l’illuminazione solare diviene meno intensa, lambisce la condizione di Neil Bennett, così si chiama, ma non la esaurisce. Bennett soffre, in modi e in quantità di solito imperscrutabili per lo spettatore, ma non è affetto da demenza senile. È malato, e quello che inscena è un vero e proprio wandering (anche questo riscontrabile in patologie neurologiche degenerative) emotivo, ma non lo è solo in senso clinico.
Se ci fosse un premio per il titolismo, in Italia vinceremmo di certo quello per l’originalità. Eppure Il valzer del pesce freccia, titolo italiano del film di Emir Kusturica, Arizona Dream, un po’ richiama la vicenda umana di Sundown e di molto cinema di Franco, kitchen sink rarefatto ed esistenzialista, che commuta la ribellione generazionale in un (impossibile) riscatto individuale. Persino il più sociale dei suoi lavori, Nuevo Orden, sancisce il fallimento dell’afflato rivoluzionario, dunque comunitario: quasi un Ballard nichilista e gattopardiano, dalla lotta di classe si giunge in men che non si dica a una restaurazione invincibile, anche perché ciclica, specie di fato ineluttabile e crudele per l’America Latina. Un beffardo nuovo ordine che, neppure nell’ambito della distopia, annulla lo spauracchio del colpo di stato militare. Il barlume di vita che per Bong (e in fondo anche per McCarthy/Hillcoat) era verosimile, lì implodeva in una fucilazione di massa e poi in un’impiccagione pubblica.

L’assunto rimane analogo nelle storie private, piccole, come sono quelle di Sundown o di Chronic (com’era quella del primo lungometraggio, Después de Lucía), rimarcate entrambe dal tratto grave della macchina da presa, della quale sembra di poter percepire l’affanno. Impassibile, e tuttavia pesante, lei, impassibili, almeno in apparenza, i due protagonisti: il volto è lo stesso, quello di Tim Roth, per il quale la cifra recitativa del less is more vale in opere come queste più che altrove. In Chronic, lavoro caratterizzato da una certa immaturità espositiva, ma non privo di pregi, Michel Franco plana dalla ricerca della presenza – un’automobile ferma, qualcuno che osserva qualcun altro da lontano – a un’assenza materiale. Il finale è molto simile, per le sue conseguenze e in parte per la funzione prodromica della morte (da una parte già avvenuta, dall’altra vicina, temuta, scacciata), a quello di Still Life, di Uberto Pasolini. Nel lavoro di Pasolini, la morte irrompeva in una vita che stava trovando il proprio posto nel mondo, nel film di Franco, be’, ogni elemento è già morte; destino cechovianamente annunciato, quello di John May/Eddie Marsan, poiché in una specie di analogia con la pistola di Cechov, se in scena il protagonista è meticoloso nel guardare da una parte e dell’altra prima di attraversare la strada, presto o tardi una mutata condizione di vita, quasi una serenità inaspettata, renderà vulnerabile finanche l’automatismo più consolidato. Era una morte con significato denotativo, quella di Pasolini, e seguiva una compassionevole catalogazione burocratica delle morti degli altri. Mentre risulta avere maggiore valenza connotativa la morte – tema onnipresente, in varie forme, così come la violenza, si pensi a A Los Ojos, film darwiniano nell’accezione più brutale – a cui assistiamo nel finale di Chronic.
Come risulta connotativo, pressoché in ogni occasione, lo spazio, vera e propria eterotopia che circoscrive lo stare a-vitale dei personaggi, quasi che si guardassero da fuori, divenuti estranei a loro stessi, anestetizzati nelle loro stesse sofferenze; le case degli ammalati, uguali e diverse, in Chronic, l’albergo di second’ordine, buio, spoglio (e spogliato, derubato) in Sundown, introdotto dopo un incipit opulento, ma altrettanto asfissiante. Kusturica, dicevo. Il pesce freccia, volano onirico tra un ora complesso e un poi inaccettabile/inaccessibile; il pesce che boccheggia, nell’incipit di questo lavoro, indizio di una strategia a tempo, che non potrà che culminare col fallimento.

Il regista sembra volerci ingannare, disseminando riferimenti vaghi, dissimulando rispetto a informazioni (forse?) essenziali, ma ogni dato è già davanti ai nostri occhi, a partire dai pesci in agonia, strappati dal loro elemento naturale: la risacca di mare e sangue sulla spiaggia affollata di Acapulco – una spiaggia popolare, poco turistica –  la prigione che si rispecchia nel mattatoio con gli uomini accatastati, come maiali, e le viscere di un povero animale, scannato, presagio ferale, uno degli ultimi.
Non ci prende in giro quindi Franco, quando racconta l’inconsistenza dell’essere di Neil Bennett. Neil, dal canto suo, non prende in giro Berenice – noi invece lo crediamo – quando afferma di non avere né moglie né figli. La verità ci viene rivelata poco dopo e no, Neil non stava affatto mentendo. Non si tratta di dissimulazione, ma di progressiva e laica transustanziazione in un’essenza non materica: un’indagine istologica che ha la forma di una nebulosa celeste. Da una parte, lo schianto di David (Chronic), così corporeo, così presente, per un uomo che aveva cercato nei martiri scarnificanti dei corpi altrui il palliativo per i propri errori e le proprie mancanze.
Dall’altra, l’imperturbabile leggerezza dell’abbandono: Neil scompare nel nulla – lo stava già facendo, in vita: l’evitamento è tappa del personale calvario, non certo una rinascita – evanescente come un ectoplasma. Unico segnale del suo passaggio al mondo, una camicia che si gonfia di vento, come lo scherzo di un fantasma nella fantasia dei bambini, come se in quella stanza, dopotutto, non fosse mai entrato essere umano, non si fosse mai posata nessuna alba.

Ogni cosa (non) è illuminata.

È sempre bello lasciarsi sorprendere da un film. Dai suoi giochi di prestigio, dai suoi inganni e dalla sua magia. Difficile oggi mettersi nei panni di quei primi spettatori che vivevano il cinema di Méliès quasi come fosse lo spettacolo di un illusionista. Ma certamente sono molti i casi recenti (e non) in cui è ancora possibile sentirsi felicemente aggirati da un trucco del montaggio o da un plot twist inaspettato. D’altronde il cinema nasce anche per questo e dopo oltre cento anni di storia gli spettatori continuano ad andare in sala anche per questo.
Ci sono dei casi però dei casi in cui accettare l’inganno risulta un po’ più difficile e meno naturale. Episodi in cui più che “felicemente aggirati” ci si sente, molto banalmente, presi in giro. Film in cui il regista abusa della propria posizione privilegiata infrangendo le regole di quel tacito accordo che lo lega allo spettatore e finendo col tradirlo. E questo sadico e compiaciuto giochino è sicuramente alla base di Sundown di Michel Franco.
Dopo il discreto successo di critica raggiunto con Nuevo Orden, il regista messicano torna a parlare di situazioni ordinarie sovvertite in maniera improvvisa da una causa esterna. In questo troviamo Alice e Neil Bennett, che assieme a due ragazzi, Colin e Alexa, formano una facoltosa famiglia britannica in vacanza in un lussuoso resort di Acapulco. Improvvisamente un’emergenza arrivata da lontano li costringe a ripartire; Neil, però, finge di smarrire il passaporto e, nel bel mezzo di un tragico dramma familiare, sistema il proprio lettino in riva al mare e si rimette a prendere il sole. Quello che lo spettatore sa, fino a quel momento, è che un padre di famiglia, di fronte a un’emergenza, abbandona moglie e figli per continuare ad abbronzarsi dall’altra parte del mondo. Con il proseguire della narrazione questo dato verrà smentito; Neil non è realmente il padre di quella famiglia, e a lui vengono attribuite tutta una serie di attenuanti per cui in fondo, quel che fa inizialmente non è poi così sconvolgente.

Ma in realtà il punto non è tanto che le azioni dei personaggi vengano giustificate o meno, quanto piuttosto che Sundown, per tutta la sua durata, procede in questo modo. Michel Franco di fatto continua a servire allo spettatore su un piatto d’argento l’opportunità di odiare - o quantomeno giudicare - il proprio protagonista, per poi spiattellare in scena una sequela di giustificazioni che portano lo spettatore a sentirsi costantemente sbugiardato rispetto ai ragionamenti fatti fino a quel momento. Ed è un’architettura narrativa quantomeno discutibile, perché si fonda interamente sulla continua smentita di nozioni date per certe, senza che però siano mai forniti allo spettatore degli strumenti per mettere in dubbio quello che sta vedendo. Il tutto si trasforma in un racconto estremamente schematico che si accanisce sul proprio protagonista e su chi guarda, con un sadismo totalmente fine a se stesso.
Perché forse l’elemento che lascia più interdetti sia che questo gioco messo in piedi da Michel Franco non porta da nessuna parte. Sundown non dà infatti mai l’impressione di voler essere una riflessione sull’inaffidabilità delle immagini o sull’impossibilità di leggere le situazioni. Il protagonista del film vive la propria traiettoria narrativa in maniera assolutamente lineare, senza scossoni né colpi di scena. In questo senso sembra quasi che, anziché viaggiare con il proprio film, Franco abbia scelto di lasciarlo andare per distendersi a prendere il sole, in modo compiaciuto, su un lettino in riva al mare.