Commedia, Drammatico, Sala

SULL’ISOLA DI BERGMAN

Titolo OriginaleBergman Island
NazioneFrancia, Germania, Belgio, Svezia, Messico
Anno Produzione2021
Durata105'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Una coppia di registi si stabilisce per un’estate a scrivere sull’isola svedese di Fårö, celebre residenza di Ingmar Bergman.

RECENSIONI

Se il capolavoro esistenzialista-huppertiano L'avenir era un'opera attorno a tutte le declinazioni di significato del concetto di "crisi", il settimo sigillo registico di Mia Hansen-Love, Bergman Island, ne è seguito ideale anche perché il precedente Maya è passato quasi totalmente inosservato. È stato un parto lungo, complicato. Innescato da una serie di considerazioni sull'ineffabilità del processo per cui la necessità di scrivere si impone sui travagli e le difficoltà della composizione come lavoro, il soggetto trova il suo reagente in un'isola svedese nel mar Baltico a nord-est di Gotland, Fårö, che è antonomasia per Ingmar Bergman, a sua volta antonomasia di scrittura cinematografica. È il primo film girato in inglese, con cast internazionale, dalla regista francese. Proprio gli attori furono il primo problema. Greta Gerwig (per certi versi alter ego newyorkese di Hansen-Love e già comparsa in Eden) e John Turturro si sfilarono a ridosso del primo ciak e furono sostituiti da Vicky Krieps e Owen Wilson ma, per il secondo, la storia venne a ripetersi. Hansen-Love decise di cominciare a girare nell'estate 2018 tutte le scene che non prevedevano la presenza del protagonista maschile per poi integrarle, l'estate successiva, con le pose in presenza di un Tim Roth dell'ultimo minuto che tratteggia con i suoi sovrappensieri una prova d'attore magistrale. L'espediente di cominciare senza l'uomo è un gioco delle circostanze casuali che stende l'ennesimo strato di rimandi meta su un film che parla, anche, di cinema e femminismo.

Il tratto di Mia Hansen-Love si fonda su sintonia e sincronia: plasma scrittura, regia e montaggio per mettere in forma l'aderenza alla vita, ai suoi cicli e ritmi. L'insostenibile leggerezza del suo cinema - malia irresistibile per chi può sincronizzarsi / sintonizzarsi sulle frequenze - sta nella trasparenza, nel rigetto assoluto della drammaturgia spettacolare in favore di storie/scene normali che trasfigurano densissime e evocative (un mazzo di fiori gettato nell'immondizia da Isabelle Huppert può essere indimenticabile) e sono intercettate da varchi spaziotemporali attraverso i quali balugina la possibilità di un'intensità diversa (per esempio la scena al Louisiana Museum in Goodbye, First Love e la magica armonia, il satori che in rari casi felici si genera semplicemente occupando insieme un certo spazio; il rave uterino edenico dove comincia il romanzo di formazione ai tempi del French touch; le deviazioni esistenziali di madame Huppert). La vita è respiro, ritmo di sistole e diastole, aprirsi e chiudersi di possibilità e ciò continua a ripetersi in ogni fase anagrafica perché l'individuale, il generazionale e il cosmico si rispondono: è questo che ripete tutto il cinema di Mia Hansen-Love tematizzandolo nei finali zen (Eden) o alludendovi nella miracolosa chiusa de L'avenir quando i piani della necessità e di ciò-che-avrebbe-potuto-e-non-è-stato manifestano in modo straziante la loro intrecciata coesistenza all'interno della coscienza. Tutto è tempo, compreso il momento fuori dal tempo ("il momento nel giardino delle rose"): sono film che parlano la stessa lingua dei Quattro Quartetti di T.S Eliot.

Lo stessa scansione di realtà e possibilità, di banalità, incanto e incanto nella banalità scandisce Bergman Island. È l'isola di Fårö con la sua luce nordica, le folate di vento, il paesaggio ai minimi termini, l'austera bellezza scandinava a fornire una quinta naturale e culturale (le spiagge pietrose, la foresta sulle dune come le case e la tomba di Ingmar Bergman). Un tema è inevitabilmente il rapporto, gli intrecci tra vita e arte tout court e tra cinefilia e autobiografia. Una prima declinazione è politica, femminista. L'arte ha sesso. La protagonista si chiede, senza nascondere un certo disagio, come potrebbe avere la stessa creatività torrenziale e intanto mettere al mondo nove figli con cinque differenti partner, come fece Bergman, senza il lasciapassare concesso al genio maschio che può permettersi di essere un padre e marito discutibile senza incorrere nello stigma sociale che colpirebbe una omologa. La questione tuttavia viene deviata dal manicheismo moralista à la carte verso territori più stimolanti. La capa della fondazione Bergman, che si esprime per ipse dixit come una somma sacerdotessa del culto, conclude laconica che non c'è distanza: l'autore di Sussurri e grida ha applicato la stessa crudeltà all'arte e alla vita. Quella postura esistenziale ha nutrito un corpo di opere - le indagini più radicali e spietate sulla natura umana nelle quali il cinema si sia mai avventurato - che l'altro alter ego interpretato da Mia Wasikowska definisce "un rifugio e una consolazione". Aderire alla vita implica necessariamente accettare la contraddizione.

Bergman domina come tema, come personaggio - assente, lo vediamo solo una volta in foto in una scena che, in virtù della scarsità, guadagna una intensità davvero emozionante - e come metafora. Egli ha nel film una funziona omologa a quella dei Daft Punk in Eden, altra opera di fiction con nomi e contesto reali: il duo parigino fa da sponda alla parabola discendente del protagonista perché, del vasto arcipelago di dj e musicisti che facevano la scena French house, è il solo ad avercela fatta davvero, sono gli unici il cui nome sarà ricordato per una questione di bravura e fortuna, di talento e casualità. Ancora i "Quattro Quartetti" eliottiani funzionano chirurgicamente a modo di chiosa: "(...) Because one has only learnt to get the better of words / For the thing one no longer has to say, or the way in which / One is no longer disposed to say it, and so each venture / Is a new beginning, a raid on the inarticulate / With shabby equipment always deteriorating / In the general mess of imprecision of feeling, / Undisciplined squads of emotion. And what there is to conquer / By strength and submission, has already been discovered / Once or twice, or several times, by men whom one cannot hope / To emulate–but there is no competition–". Bergman è il paragone e paradigma, l'impareggiabile che, come ne Il soccombente di Thomas Bernhard, può anche spingere all'afasia. Quello del confronto costante e schiacciante con modelli irraggiungibili non è solo un motivo filosofico, è anche il principale tema politico generazionale della regista, ora quarantenne, cresciuta nell'era del tardo capitalismo. Tim Roth, a un certo punto, incalza la compagna in pieno blocco dello scrittore con un incoraggiante "no one is expecting Persona!". Bergman è l'artista iperuranico, noi siamo comuni mortali e dobbiamo maneggiare la vita, sembra ripetere Mia Hansen-Love. Non c'è neanche gara - ma non è una consolazione. Bergman è palinsesto totalitario: quanto meno sull'isola di Fårö persino esprimere le proprie emozioni individuali può passare soltanto da una scelta all'interno della sua filmografia presa come moodboard. Il Maestro, infine, possiede un passaporto diplomatico anche nelle faccende corrrenti: non soltanto può permettersi di generare famiglie disfunzionali in modo frattale, può anche prendersi il lusso di "vivere nel presente", di abbandonare come una seccatura case e proprietà, con atti di suprema sovranità esistenziale inimmaginabili per chi, come la protagonista, ha bisogno di scrivere per poter provare via proxy una vita relativamente autentica senza cascami. Bergman diviene metafora dell'incapacità di vivere fuori dalla cultura: Hansen-Love regista non smette di citarlo a volte in modo criptato, spesso in modo talmente smaccato da dare la fortissima impressione del pastiche ironico - rintocchi di orologi e cristalli, inquadrature di coppia in profilo e altri topos bergmaniani assortiti. Bergman è il colonizzatore di immaginari, il pere-jouissance castrante; è anche l'ancora, il riferimento, il catalizzatore di un desiderio mimetico senza il quale sarebbe (ancora più) complesso esistere e creare.

Non basta dividere il letto usato in Scene da un matrimonio per diventare grandi come Bergman. È però sufficiente per finire invischiati in un territorio sotto possessione. Bergman Island - come richiamato più volte nelle matrioske meta - è una ghost story (come ogni storia d'amore, direbbe qualcuno). Dire Fårö è dire Bergman: il regista la scoprì cercando una location alternativa per Come in uno specchio innamorandosi del paesaggio corrispondente al proprio paesaggio interiore, vi si stabilì e la utilizzò come sfondo e protagonista di un gran numero di capolavori, da Persona a La passione di Anna a Vergogna, oltre a farne soggetto di una coppia di documentari etnografici. L'isola non fornisce, come detto, uno scenario qualunque ma trascina naturalmente gli eventi dentro territori bergmaniani. È un'isola infestata dove il regista, grande metteur en scène teatrale shakespeariano, tiene le fila di tutto come il Prospero della Tempesta, tanto da vivo quanto da morto. I suoi stessi film sono pieni di spettri fino all'apoteosi di Fanny e Alexander e, benché ateo, cominciò a credervi dopo la morte dell'ultima moglie. Con un ulteriore giro metafilmico, i fantasmi dicono di un altro spettro che si aggira dentro Bergman Island, quello di Olivier Assayas, la cui relazione quindicennale con la regista si concluse nel 2017, proprio quando Hansen-Love comincia a imbastire il trattamento. Assayas, bergmaniano di ferro probabilmente adombrato nel personaggio di Tim Roth, scrisse - a quattro mani con Stig Bjorkman, che recita in Bergman Island il ruolo di se stesso - uno stupendo libro-intervista dedicato a Bergman, una delle analisi più raffinate dell'opera del regista svedese. Inoltre si cimentò con la storia di fantasmi (Personal Shopper) poco prima di rompere con Hansen-Love. Oltre il gioco delle coincidenze e dei rimandi nominali, Il gioco delle coppie, il bellissimo film seguente del 2018, sembra un tentativo di continuare un dialogo amoroso, essendo la sua chiusa zen, diafana, dove si sente la consistenza dell'aria il momento in assoluto più apertamente hansen-loviano della cinematografia di Assayas. Bergman Island diventa quindi un ulteriore capitolo di una storia di amore e cinema superando la lettera del racconto di una crisi di coppia.

I film di Mia Hansen-Love pedinano traiettorie, parabole senza voler avere la forza di imporre direzioni. Sono quindi film-game pieni di bivi. Tony (Tim Roth) partecipa con spirito feticista e cameratista al Bergman Island - un giro in pullman per luoghi iconici, incredibilmente veramente organizzato ogni anno, con humor molto svedese. Amy/Mia, sentendosi lost in translation, diserta dal suo ruolo di principessa consorte e dalle aspettative sociali, come Isabelle Huppert ne L'avenir, per vivere la sua piccola avventura con lo studente, senza il coraggio di portarla fino in fondo (ancora come ne L'avenir). Scopre brani vergini, elementari dell'isola, non marcati da Bergman, che sembrano essere ciò che sono: sabbia, acqua, pietra, alberi. Tanto la protagonista quanto la camera si fanno per più leggeri, per qualche minuto. È davvero così oppure ci si illude soltanto di poter sfuggire all'immaginario? Non si tratta esattamente di una versione trailer di Monica e il desiderio e Un'estate d'amore? Quindi le cose si complicano. Inizia il film-nel-film che poi sarebbe un film-nel-film-nel-film se il rapporto plurispeculare fin dall'onomastica tra regista-protagonista-personaggio rimanda brutalmente a Persona e così via nel ping pong tra autobiografia e trama cui abbiamo accennato. Spiegare e districare precisamente tutti i piani che vanno a sovrapporsi sarebbe un esercizio estremamente complesso, per cui servirebbero multiple revisioni e in definitiva apparterebbe all'approccio maschile, agonistico verso l'arte che gratifica chi riesce a risolverla (quello che ha fatto la fortuna di Christopher Nolan) e che Bergman Island prende in giro a più riprese. Una critica ricorrente mossa, con ragioni, al film è quella di "pushing too hard on meta" come un apprendista stregone incapace di gestirne le conseguenze. È vero ma anche secondario perché il valore del film non è architettonico. È piuttosto interessante notare come la struttura del film-nel-film sia estremamente più convenzionale, lineare rispetto a quella a mala pena esistente del film-film, come a ribadire che si cerca nell'arte la chiusura che non riesce nella vita. Mia Hansen-Love è magistrale nel dare un senso di tempo completamente bergsoniano, dilatato, frammentato in un effetto realtà che corrisponde con il lasciare sempre aperto tutto - le scene come il senso delle stesse - con un senso dell'impermanenza e del mu che si concretizza nelle inquadrature haiku quando una variazione di luce cambia tutto. Il film simbolicamente finisce con una domanda, quella della figlia che chiede "does ghosts really exists?" per non chiudere, per lasciare aperto il disegno di un altro capitolo di una teoria della deriva, dell'inadeguatezza e dell'inconclusione.