Commedia, Drammatico, Recensione

SUL PIÙ BELLO

TRAMA

Marta, tanto simpatica quanto bruttina, soffre dalla nascita di una rara malattia genetica. Nonostante tutto, Marta è la ragazza più solare che abbiate mai conosciuto. Carattere travolgente ha fretta di fare tutto e subito. A 19 anni come ogni ragazza della sua età sogna il grande amore ma lei non è una che si accontenta e prima che la sua malattia degeneri vuole sentirsi dire “ti amo” da un ragazzo bello… il più bello di tutti.

RECENSIONI

Alla chiusura delle sale per il nuovo lockdown Sul più bello, appena uscito, occupava il primo posto nella classifica degli incassi: una corsa beneaugurante troncata sul nascere. È un peccato non sapere quale sarebbe stato l’esito finale al botteghino perché il film di Alice Filippi rappresenta un’anomalia nel nostro cinema: l’operazione cosciente di importazione di un genere. Parliamo di figure, situazioni, toni tipici del cinema americano (teen, ma non solo) che qui trovano una declinazione nostrana, certo, ma senza imbastardimenti forzati. E che, soprattutto, stante l’evidente pericolo di perdere l’equilibrio, vengono gestiti con grande sicurezza.
In questi anni il film che mescola commedia romantica, gioventù e malattia (possibilmente terminale) si è visto tantissimo (da Colpa delle stelle a Quel fantastico peggior anno della mia vita), un modulo esperito secondo gradi diversi di commozione e lacrimevolezza: è un genere che trovo affascinante e che frequento da appassionato perché porta con sé derive melodrammatiche difficilissime da controllare, sabbie mobili nelle quali affondare è un attimo (mica semplice sbrogliarsela tra realismo terapeutico, idealismo sentimentale e complicazioni etiche). Insomma, prima ancora della storia, quello che mi intriga di questi titoli è capire qual è la sfida che lo sceneggiatore accetta e constatare come la affronta, soprattutto se la materia accoglie riflessi metaforici sull’attualità. Un esempio: in Noi siamo tutto, A un metro da te o Il sole a mezzanotte la malattia andava letta anche come riflessione sul modo odierno di comunicare tra i giovani, sulla paura dei sentimenti che svilisce la corporeità ad eventualità, mettendo in conto filtri tecnologici e relative distanze di sicurezza. Questione poi imprevedibilmente ingigantita dalla congiuntura pandemica. Per dire che questo cinema parla del presente a volte in maniera più acuta (o addirittura presagica) di tanto altro, molto più blasonato.

La cosa interessante di Sul più bello è che tutto questo rimuginare sui topoi del genere diventa parte stessa del film. Il voice over della protagonista - antitesi della ragazza avvenente, affetta da mucoviscidosi - si rivolge allo spettatore cinematografico, provenendo da una creatura finzionale che sa di esserlo. Ma, proprio perché cosciente del suo incarnare un tipo già affrontato in altri film, il personaggio rivendica, rispetto ai precedenti, una sua originalità: che sta, innanzitutto, nella sua patologia peculiare e nel suo non essere «una strafiga».
Questo sottile e tenace filo metadiscorsivo (a cui lo stesso titolo del film non si sottrae), lungi dall’essere un giochino, si afferma come motivo rilevante per la costruzione stessa della vicenda, legittimandone la natura fiabesca: cioè se in Sul più bello tutto accade come in una fiaba - principe azzurro bello-ricco-infelice, reggia a disposizione, notturno su una gondola, intesa sessuale tra tipologie altrimenti inconciliabili, Torino come in un film di Jeunet, tutti i pezzi che si incastrano in un tempo felicemente contenuto - è perché in una fiaba ci troviamo, coscienti di esserlo al punto che l’opera si dichiara catalogo di situazioni-tipo (per tutte: la scelta dell’abito) messe in scena perché vengano riconosciute come tali. Politica del déjà-vu, quindi, ma proprio perché non così vu nel cinema italiano. Anche in questo senso Sul più bello è un’operazione riuscita: perché, al di là del ricamo teorico (leggero, perché così ha da essere), vanta una cura inedita della confezione (un décor “che parla”, un’attenzione all’aspetto cromatico che diventa cifra, la composizione delle inquadrature che guarda alla vignetta), una disinvoltura che sa rendersi esplicita nel suo proporsi inclusivo (gay e lesbica vogliono un figlio e, c’è da giurarci, alla fine l’avranno) e un garbo nei toni  - proprio di chi sa quale pubblico sta intrattenendo e come dialogarci senza ingannarlo - che rende amabili tutti gli snodi.
In più ci regala anche una protagonista - Ludovica Francesconi,  al debutto - che, c’è da scommetterci, farà un sacco di strada.