Recensione, Western

SUKIYAKI WESTERN DJANGO

Titolo OriginaleSukiyaki Western Django
NazioneGiappone
Anno Produzione2007
Genere
Durata121'

TRAMA

A centinaia di anni dalla battaglia di Dannoura, i clan dei Genji e degli Heike si fronteggiano in una povera città di montagna in cui aleggia la leggenda di un tesoro sepolto. Yoshitsune comanda i suoi Genji vestiti di bianco, mentre Kiyomori capeggia gli Heike, in abiti rossi. Un bandito solitario, oppresso da un carico di ferite emotive e dotato di un incredibile talento, giunge per caso in città.

RECENSIONI

Tra camei e collaborazioni varie, quanti scambi di favori dobbiamo ancora attenderci, e subire, dalla premiata coppia Quentin Tarantino e Miike Takashi? Questa volta tocca al debutto nel western del prolifico regista giapponese (più di 70 film, includendo anche quelli per la tv, in soli quindici anni di carriera). Il re incontrastato della crudeltà nipponica decide incautamente di rifare (ma alla luce degli eventi narrati si tratta di un improbabile prequel) Django di Sergio Corbucci, per alcuni cult. In un'epoca in cui tutto viene rivalutato, dopo l'horror e le commedie scollacciate è la volta dello "spaghetti western", omaggiato da Takashi fin dal titolo (il "sukiyaki" è infatti l'equivalente giapponese dei nostri spaghetti), ma il "genere" incontra più difficoltà del previsto a rivalutarsi, anche tra i fedelissimi. Il film si apre con un irresistibile prologo, delirante e colorato, dove Tarantino interpreta con ironia e divertimento il narratore Piringo. L'antefatto scorre tra gli applausi del pubblico, ma le iperboli non proseguono con altrettanto spasso. La storia, per una volta più lineare del solito per un film di Takashi, prevede un intreccio molto elementare, con il gruppo dei Bianchi in lotta contro quello dei Rossi. In ballo ci sono un tesoro e una bella da saloon, e un bandito solitario deve decidere da che parte stare. Più che la storia, davvero banale, dovrebbe contare il come, ma gli sviluppi si ripetono a suon di combattimenti funambolici privi di mordente fino al prevedibile epilogo (di imprevedibile c'è solo la didascalia finale che informa che il pupetto sopravvissuto andrà poi in Italia dove sarà conosciuto come Django). Per gli amanti del "genere", le convenzioni vengono rispettate: saloon polverosi, cieli di azzurro e nuvole, vento, personaggi monolitici, battute tipo "Ci rivedremo all'inferno!", vendette da perpetrare, pistole a go-go, cappellacci calati di traverso, donne cazzute. Takashi contamina il tutto con un po' di splatter, una buona dose di cattiveria (la malvagità è ovunque e in chiunque) e alcune sue tematiche predilette (ad esempio il doppio, che fa capolino nella personalità multipla dello sceriffo), ma due ore di sparatorie, voli, urla e combattimenti sopra le righe si rivelano davvero troppe. Anche perché di personaggi è inutile parlare e le icone evocate non riescono a vivere di soli ricordi. La visionarietà di Takashi si esaurisce così in una messa in scena prevalentemente ripetitiva, senza quel guizzo che oltre a omaggiare un "genere" gli permette anche di rinascere a vita nuova.

Offrendogli, nella finzione, questo ruolo di “maestro”, Takashi Miike rende omaggio al Quentin Tarantino che lo ha fatto conoscere in Occidente e ne replica anche la chiave iperbolica e pop per un sottogenere di cassetta come lo spaghetti western, imbastendo un bizzarro e kitsch (fino al ridicolo volontario, non esattamente felice) prequel di Django di Sergio Corbucci (il collegamento c’è nel finale, ma non è niente di che) e rivendicando al Giappone, sin dal titolo (sukiyaki = spaghetti), le radici di Per Un Pugno Di Dollari (e Django stesso), rifacimenti non dichiarati de La Sfida Del Samurai. Anche la trama, per quanto storpiata e virata al demenziale, ripropone il film di Akira Kurosawa e non certo nel modo migliore: a Miike non interessano il pathos epico e morale dell’originale, tanto meno la deformazione alla Sergio Leone, che vira solamente in aderenza realistica stilizzata. Il suo è un cartoon dell’eccesso, un western del Sole Rosso che si rifà ai racconti storici di Heike (i nomi dei personaggi, il prologo con Tarantino che pare uscire dalle tavolozze di Wisit Sasanatieng), con la dichiarazione di intenti artificiosi nei set da studio con fondali ispirati ai dipinti di Hokusai. È lo scimmiottamento consapevole di una trama archetipica svuotata di senso, alla stregua delle tavole “fotocopia” di Andy Warhol. A salvare la baracca, in realtà, è proprio il talento disordinato di un regista che si butta sempre a capofitto nei suoi progetti, senza temere la violenza parossistica, la gag idiota, il personaggio fuori luogo (lo sceriffo con sdoppiamento di personalità o il “castrato” che pende verso il gentil sesso, tagliato nella versione per il mercato estero), le situazioni strambe, il lirismo sfacciato.