Commedia, Drammatico, Serie

SUCCESSION

NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Durata3 stagioni, 30 puntate

TRAMA

La ricca e potente famiglia Roy, composta dal patriarca Logan e dai suoi quattro figli, controlla uno dei più grandi conglomerati mediatici del mondo. Mentre il loro vecchio padre si ritira a poco a poco dalla compagnia, Connor, Kendall Roman e Siobhan contemplano il futuro dell’azienda senza di lui.

RECENSIONI

«Family, fortune, envy, jealousy
Privilege, passed on legacy

Secret, sabotage, borderline felony
Suicide, subtract, selfish, pedigree»
Puppets, Pusha T

C’era bisogno di una serie così, di una grande saga familiare che guardasse ai classici (Shakespeare, più volte citato, e in particolare il Re Lear) e che alludesse a personaggi reali (le famiglie di Rupert Murdoch e Donald Trump), ambientata nel mondo dell’alta finanza, in cui il gioco dialettico tra i protagonisti confondesse affetto e interesse. E che, vivaddio, non perdesse colpi, ma, al contrario, procedesse in crescendo, inesorabile, puntata dopo puntata. A dominare il racconto è il padre-padrone Logan Roy che dopo aver paventato la possibilità di lasciare il comando del suo impero finanziario al figlio Kendall, ritorna sulle sue posizioni scatenando una guerra, silenziosa e chiassosa insieme, tra i figli, soggetti diversamente mediocri, diversamente inetti, sprovvisti di senso della realtà, deboli, viziati, privi di una visione. La prima puntata già delinea il quadro di reciproca sfiducia che esiste tra i membri della famiglia e statuisce come quella della successione, come ci ricorda il titolo, sia la questione chiave, quella che metterà a nudo caratteri, trame, segreti e bugie del nido Roy: perché il patriarca non vuole soltanto che gli succeda una persona capace, vuole qualcuno che, al momento giusto, si dimostri il mastino privo di scrupoli che lui è sempre stato. E Kendall, che si fida troppo del padre, viene scartato dal genitore anche per questo motivo. Insomma se Logan guarda all’azienda e al suo benessere senza farsi condizionare da legami e affetto, Kendall è ancora un daddy boy (come viene apostrofato) che, per quanto voglia affrancarsi dall’ombra paterna, non è all’altezza del ruolo cui aspira perché non sa essere cinico fino in fondo.
La puntata contiene già la chiave: «Ti rispetterà solo se cerchi di distruggerlo perché nella tua posizione lui farebbe lo stesso». In questa frase rivolta a Kendall si precisa un programma che porterà l’uomo a quella subdola uccisione del padre con la quale si chiude la seconda (e ultima, al momento) stagione e che è la paradossale dimostrazione di forza bruta che il genitore chiedeva. Questo momento è l’acme di un’appassionante lotta per garantirsi il potere che è il centro di una tragicommedia ricca di implicazioni freudiane, innervata da dialoghi di sostenuto sarcasmo, in cui il turpiloquio regna e l’umorismo nero raggiunge punte di demenzialità surreale: stante la base verista (l'indecisione sulla successione è l’impasse di un’intera famiglia giunta a uno snodo storico cruciale), l’esasperazione dei caratteri è tale da sfociare spesso e volentieri nel grottesco (Tom dona l’anello di fidanzamento a Shiv all'ospedale, mentre il suocero è in coma per un ictus; tutta la linea narrativa del cugino Greg è pura, paradossale inadeguatezza al dramma). E in cui pochissimo spazio si concede al sesso, come se denaro e potere bastassero: il massimo dell'edonismo passa attraverso le droghe. O attraverso una sega (Roman, che è fondamentalmente un necrofilo, se ne fa due).

«My bloodline was not chosen, ooh
This bank account is not frozen

This thing of ours is not broken
What's understood is not spoken
If you love me, please don't judge me»

Il paragone che mi viene da fare per questa saga malata creata da Jesse Armstrong, in cui l'Economia è la protagonista invisibile (produce Andy McKay...) , abitata da personaggi semicaricaturali, affogata nell’ironia acida, stante anche le scelte di stile (dominano una fotografia tarata su tonalità smorte, la camera a mano e gli zoom improvvisi, a tratti spunta persino qualche jump cut), è quello con le opere di Lars von Trier e del Dogma, tanto che se Festen di Vinterberg potrebbe, direttamente o indirettamente, essere un punto di riferimento, mi è impossibile non vedere Melancholia in tutta la frazione del matrimonio di Shiv (il castello, la madre della sposa velenosa e disillusa, il pullman che non riesce a infilare il portone - metafora! -, il marriage manager eccetera eccetera) o The Kingdom in quel delirante ritiro aziendale in Ungheria, con la cena-gioco al massacro per stanare la talpa. Vontrieriana è proprio la comicità irresistibile dell’eloquio («Cosa ti farebbe cambiare idea?» «Una lobotomia»), è questa galleria di viscidi caratteri (Marcia è una sfinge: non si capisce se la sua devozione a Logan sia interessata o meno; Roman è il giullare di corte che decodifica la verità che soggiace dietro la forma; Tom è un mediocre, inebetito dal potere e costantemente umiliato dalla moglie, eccetera) come la sostanziale incorretness (sessismo, razzismo, classismo) di cui sono impastati situazioni e discorsi: quanto assurdo riposa in Connor, figlio che non ha mai combinato niente nella vita, a parte consegnarsi a un idealismo vuoto e ipocrita, che decide irrealisticamente di candidarsi a presidente degli Stati Uniti? O nel fuck off usato come intercalare con qualsiasi interlocutore, fosse anche un socio alla pari che si è appena conosciuto? Vontrieriana è la schizofrenica gestione dei rapporti tra i personaggi che si dipanano in un circuito di apparenze e bluff continui che determinano radicali distacchi e repentini riavvicinamenti. E in cui convivono odio e amore, tenerezza e crudeltà, pugni e carezze.  In cui la verità è una bomba che scoppia nei momenti meno attesi, facendo vittime. E quella terapia di gruppo a cui l’intera famiglia si sottopone al ranch è un’idea straordinaria: perché coerente con tono e materia della serie, da subito sensibile al discorso psicoanalitico, ma nello stesso momento perfetta decrittazione teorica dei motivi narrativi sui quali essa si fonda.