TRAMA
Danielle Flinders (Alicia Vikander) e James More (James McAvoy) si incontrano casualmente in uno sperduto hotel in Normandia quando entrambi sono in procinto di affrontare una missione pericolosa. I due si innamorano quasi contro la loro volontà e capiscono subito di essere di fronte all’amore della loro vita. Al momento della separazione, si scopre che James lavora per i servizi segreti britannici ed è coinvolto in una missione in Somalia con l’obiettivo di rintracciare una base di attentatori suicidi infiltrati in Europa. Danielle “Danny” Flinders è una biomatematica impegnata in un programma di immersioni profonde il cui scopo è trovare conferme alla sua teoria sull’origine della vita sulla Terra. Presto si ritrovano catapultati in mondi lontani anni luce. James viene preso in ostaggio dai combattenti jihadisti e non può mettersi in contatto con Danny, lei sta per immergersi sul fondo dell’oceano senza sapere se James è ancora vivo.
RECENSIONI
«Ero pittore e il mio unico interesse era lo spazio; soprattutto paesaggi e città. Sono diventato cineasta perché sentivo che – come pittore – mi trovavo ad un punto morto. Ai dipinti mancava qualcosa e mancava nel lavoro del pittore; personalmente pensavo che mancasse una nozione del tempo. Così quando ho cominciato a fare film, all'inizio, mi consideravo un pittore di spazio in cerca del tempo».
(W. Wenders, Narrare storie, menzogne indispensabili, 1983)
Questa citazione, la scelta di questo fotogramma, questa stessa dichiarazione, ricalcano l’ovvietà degli emblemi visivi, ma anche narrativi, messi in scena nel film: indizi disseminati per essere raccolti il cui palesarsi è così esatto da non poter essere nemmeno malcelato e da non meritare neanche l’accusa di artificio, finendo per risultare necessità e, di più, emergenza. Per questo, dalla “sommersione” –spirituale, sentimentale, vitale, propulsiva, compulsiva ricerca di vuoto per tornare al sé, di morte per tornare alla vita- ciò che affiora è l’immagine stessa, il quadro, il senso, che è il guardare. Senso negato, perché nella prigionia dell’uno (McAvoy) e nell’inabissamento dell’altra (Vikander), ciò che viene meno è la luce; la presenza del mondo circostante svanisce progressivamente e lascia spazio a un immaginario oltretombale e probabilistico, fusione di scienza, mitologia, religione e spionaggio in un cocktail di “se”, “forse” e “chissà” in costante rimando all’altro, all’amato assente, all’amore-assenza che esiste e svanisce oltre il mutismo del telefono e dell’acqua.
La mano di lui mendica cibo dalla breccia in una roccia, quelle di lei afferrano l’aria dalla cubia di una nave; riemergono immagini di un primo incontro che si fa primigenio nel ricordo, nella tattilità negata del cercare l’altro, del cercare di orientarsi nell’oscurità del presente, nell’incertezza del futuro, nell’elemento marino che è un separatore di mondi, di dimensioni, ma è insieme un moto, una visione, un orizzonte, una speranza, una paura. Superato il confine dell’occasionalità, l’incontro è diventato sguardo e quel riconoscimento dell’altro e nell’altro si è fatto incerto nel momento stesso in cui ha definito i propri margini: è uno sguardo wendersiano, capace di vagare nell’esattezza, di autodefinirsi nella propria costante dell’imperfezione; ma di un wendersiano che tale è diventato abbracciando un lirismo che esaspera la propensione Romantica che già esisteva, optando volutamente per un ondivagare che ha sospeso il viaggio, un wendersiano che sarebbe assurdo definire nuovo, per la progressione consapevole, fin troppo, che l’ha portato a evolversi naturalmente nell’attuale involuzione-involucro di cinema che sospira più di quanto respiri, che pretende più di quanto offra, che simboleggia più di quanto contenga: ed è così che il Monaco friedrichiano che da sfondo del titolo di testa diventa diegesi, da osservatore diventa osservato -da parte dello spettatore McAvoy di cui l’astante alle sue spalle, installazione vivente del Viandante sul mare di nebbia è spettatore a sua volta- è l’evidenza della Submergence, della messa in abisso letterale, della sommersione simbolica; e, ovviamente, lo spettatore ultimo è lo spettatore, al quale tuttavia spetta poco, perché gli tocca osservare tutto questo come invito a “viandare” invece che ad andare. Un ingenuo studio (studiata ingenuità?) anima questo discorso filmico che è, a tutti gli effetti, un dipinto occidentale dal sentimento europeo musealizzato: un ripasso delle proprie filosofie, una fede nella propria scienza, una confusione nelle proprie liaison così ben calibrate eppure sfuggenti, una spinta mortuaria verso un altrove estero, straniero, da cui salvarsi.
Tutto questo può legittimamente piacere e non piacere, al netto dell’ingratitudine che spesso si riserva a taluni registi piombati o gettati in un cono d’ombra; ma al netto anche del riconoscere una narrazione che, fosse il film legato ad altro nome, probabilmente liquideremmo come “pretenziosa”.
L’immagine non è priva di ambiguità solo perché appartiene all’esattezza del visivo, della testimonianza oculare che ne facciamo nel fruirne:la nostra contemporaneità ne è la dimostrazione. E Wenders resta un rappresentante di questo tremendo, sublime scarto-unione fra realtà e narrazione della stessa che esiste tanto in un Salgado che fotografa il dolore reale fino a soccomberne documentandolo, quanto in due personaggi che parlano della vita sotto a un pergolato dondolati dall’occhio che li riprende, in quei bei giorni di un’Aranjuez che fu, che stava essendo, o che non sarà mai.