TRAMA
Da ovest a est, all’inverso dei pionieri, si muovono The Pilot e The Mechanic, due giovani su una Chevrolet del 1955 grigia, con la quale gareggiano in corse clandestine. Una ragazza, semplicemente The Girl, decide di viaggiare con loro, instaurando un rapporto blandamente sentimentale, ai nostri occhi, con The Pilot. Quando incontrano GTO, appartenente a una generazione precedente, personaggio logorroico, patetico e cialtrone che ha il nome della sua Ferrari Gialla, decidono di sfidarlo in una gara a lunga percorrenza: inviano i libretti di entrambe le auto a Washington. Chi raggiungerà la meta per primo sarà il padrone di tutte e due le vetture. Non ci vuole molto perché la competizione perda di pregnanza. I tre si scambiano automobile, rallentano e s’aspettano, si fermano in continue digressioni. E si trovano ancora a correre, per raccimolare denaro, in gare locali. The Girl, intanto, fugge prima con GTO poi, raggiunta dai due giovani, lascia in strada il suo bagaglio e scompare a bordo di una motocicletta guidata da un altro sconosciuto.
RECENSIONI
PER INIZIARE
Two Lane Blacktop - Rob Zombie
IL REGISTA
Auteur e tappabuchi, colto artigiano e via, via elencando: la retorica degli opposti, una retorica che di fronte alla sua figura potrebbe farsi gioco labirintico, inciampare in abisso, sfumatura contro sfumatura, specchio contro specchio, descrive facilmente Monte Hellman. Non rendendogli giustizia. Come non fa la sintesi che segue, piccola biografia portatile d’un cineasta che annulla le canoniche distanze tra cinemi possibili, tra exploitation bassissima e autorialità eretica. Dunque, che si lasci argomentare il curriculum: classe 1932, studente della UCLA, fondatore di una compagnia teatrale a 20 anni, poi di una a 25, la The Theatregoers Company, con cui mette in scena O’Neill, ed esordisce rileggendo Aspettando Godot come fosse un western, Hellman entra nell’industria dello spettacolo cinematografico riordinando gli archivi della Abc losangelina, poi montando la qualunque (sino a giungere, anni dopo, a opere come Fighting Mad, Head e Killer Elite). Infine, vera iniziazione, la scuola per antonomasia: Roger Corman. Così, mentre apre la New American Film Society (a domestic corporation), che propone film d’autore non distribuiti, gira l’ennesimo sghembo rifacimento cormaniano di L’isola del corallo, Beast from Haunted Cave (1959), aggiunge scene a prodotti Filmgroup per raggiungere la durata televisiva (a cui s’aggiunge un prologo alla versione americana di Per un pugno di dollari), rattoppa con Coppola La vergine di cera, nelle Filippine gira Back Door to Hell e Flight to Fury (1964), scritto da Jack Nicholson durante il tragitto in nave. 1965: Le colline blu (copione di Nicholson) e La sparatoria (copione di Carole Eastman), due western, come Corman vuole, al costo di uno, vengono presentati a Cannes, venduti e per 3 anni obliati in Europa, svenduti direttamente alle Tv negli Stati Uniti. Pietre angolari del cinema moderno, fan di pauperismo virtù, essiccando i topoi del genere chiave del cinema americano sotto i soli modernisti di Bazin e Beckett, in un realismo conscio dell’assurdo del reale, contro l’orizzonte delle attese spettatoriali, esistenzialista e antilirico. Strada a doppia corsia (1971), l’anti Easy Rider secondo Pascal Bonitzer, ne sancisce il rango di autore di culto, nel senso giustificativo che gli dona Joe Dante di fronte all’imbarazzo dell’Industria, mentre la critica lo elogia e Equire gli dedica una copertina. Shatter (1974), figlio meticcio di Hammer, Shaw Brothers e Robbe-Grillet, gli viene sottratto da Michael Carreras, finendo nel vasto archivio degli uncredited: Monte Hellman, artista cresciuto a pane e divergenze produttive. Cockfighter (1974), episodio sottostimato della sua filmografia, tratto da Willeford, è il seguito ideale di Strada a doppia corsia, dipinto da Almendros di tratti fiamminghi, squarciato da un basso costante documentaristico che umilia per fervore crudele ogni deriva narrativa. Dirige un episodio della serie Barretta, porta a termine Io sono il più grande e Avalanche Express, intanto firma l’italospagnolo spaghetti western Amore, piombo e furore (1978), esperienza produttivamente serena (anche se poi il film subisce tagli consistenti, tanto che nell’edizione italiana è firmato dall’aiuto regista Tony Brandt), all’esatto opposto di quella, 10 anni dopo, di Iguana, travagliato e sublime monster movie, grezzamente fiabesco e sfacciatamente elementare. Le tracce cinematografiche si diradano, Hellman s’alimenta con il sequel di uno slasher rosso natale con protagonista Santa Claus (Silent Night, Deadly Night III: Better Watch Out!, 1989), è regista della seconda unità di Robocop, produttore associato di Le iene, omaggia Kubrick nel micro horror demente Stanley’s girlfriend. Docente di cinema presso la California Institute of Arts, torna infine nelle sale nel 2010 con l’antinoir Road to Nowhere, in Concorso alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, dove viene premiato per l’insieme dell’opera dal Presidente Quentin Tarantino, superbo annullamento del metacinema, B movie abissale e cerebrale, in mimesi con i tempi attuali dell’immaginario, giallo perduto incapace di restaurare la logica causale, pratica di dispersione ed enigma ontologico all’epoca del flusso digitale. In rete lo trovate su facebook e su twitter.
LA SCENEGGIATURA
Hellman, per sua stessa ammissione, faceva, per prima cosa, riscrivere sceneggiature: la storia originale, di William Corry, viene rielaborata da Rudy Wurlitzer (qui anche in un cameo), al primo script. Che guarda al suo Flats, a città come puri nomi, a luoghi prosciugati dal Mito. La maggior parte dei dialoghi, in ogni caso, venne tagliata: il film, in principio lungo 3 ore e 1/2, dovette essere ridotto a una lunghezza commerciale. Wurlitzer, autore del romanzo di culto Nog, penna imbevuta di Beckett, Cioran e controcultura, prosa secca e selvatica, primitiva e logicamente assurda, amato da Pynchon, continua la carriera di sceneggiatore con Jim McBride (Glen & Randa), Peckinpah (Pat Garret & Billy The Kid), Hal Ashby (Tornando a casa, non accreditato), Schlondorff (Passioni violente), Bertolucci (Piccolo Buddha) e, soprattutto, Robert Frank (Keep Busy, Enegy and How to Get It), con cui codirige Candy Mountain.
GLI ATTORI
I laconici protagonisti di Strada a doppia corsia rispondono ai nomi, conosciuti in ambito musicale, di James Taylor (The Driver) e Dennis Wilson (The Mechanic). Taylor, figura innovativa nel cantautorato a base folk americano, con i suoi rivolgimenti interiori e le sue liriche strappacuore, cantore del dolore esistenziale, addicted e depresso, diviene poi raffinato interprete di brani orchestrali, miscelatore di generi, mito dalla voce suadente. Battezzerà, con il suo James Taylor Quartet, l’acid jazz, ossessionato dall’hammond, finendo per essere un professionista dal sound elegantemente sterile. All’epoca, dopo l’insuccesso inglese prodotto da Paul McCartney, nonostante la sua vita fosse punteggiata di ricoveri, tra la disintossicazione e il manicomio, come descritto in Fire & Rain, veniva da un periodo professionalmente fertilissimo: il secondo disco, Sweet Baby James e il terzo Mud Slide Slim And The Blue Horizon, furono successi. E in quest’ultimo, datato appunti 1971, Taylor canta la sua maggiore hit, You’ve got a friend di Carole King. Hellman decide di scritturarlo dopo averlo visto su un cartellone pubblicitario. «Aveva lo sguardo giusto», dice. La scelta di Wilson, batterista dei Beach Boys, fratello di Sua fragile Maestà Brian, giunge a casting pressoché ultimato. Dennis, responsabile della consacrazione dei Beach Boys sull’altare della musica surf, si era dato alla prima fuga da solista (il singolo a firma Dennis Wilson & Rumbo). Alla strada e all’autostop è legata, in una di quelle inquietanti torsioni tra vita e fiction, quel rivolo d’acido solforico di storia che lo lega alla Family di Charles Manson: fu infatti tramite la conoscenza di due giovani donne caricate in auto che Dennis legò con l’oscura e mesmerica figura, ospitando Manson e la sua crew in una delle sue case e poi, tempo dopo, fuggendo. Wilson morì nel 1983, annegato, lui, l’unico vero surfer di famiglia, mentre cercava ubriaco di recuperare in mare un oggetto perduto anni prima. Per motivi lampanti, alla visione del film, Hellman scelse come protagonisti due non professionisti, ma professionisti dello spettacolo. Warren Oates (GTO), è, invece, semplicemente, uno degli interpreti favoriti di chi scrive. Attore feticcio di Peckinpah e Hellman, caratterista assurto a ruoli di primo piano, diviene volto centrale della Nuova Hollywood, anche quella bassomimetica. Fu Dillinger per Milius, volle la testa di Garcia per Peckinpah, lavorò con Norman Jewison, Peter Fonda, Terrence Malick, Steven Spielberg. Morì nel 1982. Hellman, 6 anni dopo, gli dedicò il suo Iguana. Qui trovate un documentario, in inglese, sulla sua figura. Ma anche questo, ovviamente, non basta. Laurie Bird, fu scelta invece tramite un’agenzia di modelle: totalmente inesperta, doveva essere il modello per il personaggio di The Girl, il termine di confronto fisico. Infine, Hellman scelse proprio lei, e la diresse anche nel successivo Cockfighter. L’unico altro film, nella sua filmografia, è Io e Annie, dove compare in una minuscola parte, accanto a Paul Simon: la Bird si toglie la vita il 25 giugno del 1979, 25enne, nell’appartamento del suo compagno Art Garfunkel, che le dedica Scissors Cut e riapre la ferita del suo lutto nella serie poetica Still Water. Nel film, nei panni di un virile cowboy che si rivela macchietta omosessuale, fa una parte Harry Dean Stanton. Hellman, che coerentemente alle traiettorie tracciate dal film, non voleva che gli attori costruissero il proprio personaggio, ma lo vivessero shoot by shoot, decise di non mettere a parte gli attori del copione se non il giorno precedente alle riprese.
IL FILM
Insieme a La sparatoria, Strada a doppia corsia è l’Hellman che non puoi non avere visto, pietra angolare del cinema Anni 70, road movie allo stato preindustriale di puro ingranaggio, privo dell’olio narrativo condiviso che dona un senso di formazione al viaggiare, privo di musica a imbellettare, privo di ogni appiglio, se non una ricerca mimetica della realtà (ci sono lacerti che paiono sospesi tra il cinema verità e la candid camera) e che sulla pellicola si traduce in consistenza spettrale, che quando la guardi, pieno di cinema pregresso, pare un’ assenza, ma è solo qualcos’altro, insieme inadeguatezza di una narrazione sedimentata che è già cieco canone e ipotesi di altro, misurazione di ciò che separa reale e racconto generazionale. Lì, sulla strada, quella fotografata da Robert Frank in The Americans (la foto di questo paragrafo è la sua U.S. 285, New Mexico), dimenticando Kerouac e la lirica maudit della matrice Easy Rider, facendo dei luoghi comuni del genere rovine immobili, da attraversare noncuranti. «Io sono molto più interessato a imitare la vita. Traggo la mia ispirazione dall’esperienza, non guardando altri film» sosteneva Monte Hellman, pietrificando la retorica del viaggio in quei corpi che attraversano la strada fottendosene dei perché. Hellman gira in sequenza e dai finestrini si intuiscono i luoghi reali, ma i personaggi non vedono che l’asfalto, come quando The Driver cerca The Girl e non la vede, e The Mechanic gli confessa: «era chilometri fa, in un bar, sulla strada» (ovviamente). Ricorre a quadri in profondità di campo, dilata le durata, disperde il fine mitico, cinematografico, dei gesti, nel rito vacuo, documenta la danza meccanica di uomini al lavoro sulle macchine, inscrive i limiti del loro mondo in quelli di un linguaggio tecnico, chiuso, a gradi scottanti dalla realtà. L’esperto, figura centrale nel cinema di oggi (Haneke, con il suo Amour, stigmatizza), ieri era manichino in formato alienazione. Qui l’orizzonte è l’automobile, gli occhi fissi di James Taylor e Dennis Wilson sono sottratti alle retoriche dei propri personaggi pubblici, spogliati dal loro manto divistico, sono corpi ottusi, prolungamenti della ferraglia, di quella Chevrolet del 55 che è una macchina funzionale, priva di aura (l’altra, la GTO, è il solo distintivo portato da un uomo di sole chiacchiere).
L’automobile, in Strada a doppia corsia, sublima l’eros, l’automobile affronta lo thanatos, e, sinceramente, poco importa. GTO (un uomo chiamato come la sua macchina) e i due giovani (chiamati come i ruoli elementari che ricoprono) corrono, facendo tabula rasa dell’erotismo dei simboli: non gareggiano sulla lunga distanza, cercano lo scatto, l’accelerazione, l’obiettivo breve, l’intensità urgente dell’esperienza. La postmodernità è un luogo dell’anima, qui, ben prima che un’estetica fatta di alti e bassi, di esplosioni e rari momenti di stasi, di connessione. Perché non c’è lunga progettualità nei personaggi, che vivono catatonici momento per momento, non c’è seduzione narrativa nel percorso di questa pellicola, e se i ciechi frammenti si tengono, l’uno con l’altro, è per reiterazione ipnotica, o per un simbolico che eiacula precocemente, come quando GTO discute con un’anziana e un piccolo orfano di genitori uccisi in un incidente stradale e allo spettatore ritornano negli occhi le macerie di un auto, evitate dai giovani solo poco prima; o come quando GTO rinarra le vicende appena trascorse ribaltando il punto di vista, scambiando il suo ruolo con quello dei giovani, triste fioritura mitica di questa storia, banalmente patologica, mediocre come una barzelletta, l’unica possibile. Così, allo stesso modo, se «The Girl ti brucia», come dice The Mechanic a The Driver, la pellicola si brucia. In quel finale, dove la pellicola prende fuoco ricordando il finale di Le départ di Skolimovski, con negli occhi di Hellman Persona di Bergman, la strada si consacra come infinita, priva di un termine, il film finisce per abbandono, in un altro momento velocemente bruciato. E continua. Ma non al cinema, se non in semi germogliati nei loop di Gerry, nello scollamento del paesaggio dalle sue storie in Twentynine Palms, nelle sublimi traiettorie idiote dei film di Vincent Gallo.