TRAMA
Coperte da lunghe lenzuola bianche con due fori neri in corrispondenza degli occhi, figure fantasmatiche si aggirano ostinatamente nelle abitazioni in cui hanno vissuto, aspettando qualcosa.
RECENSIONI
Oggetto difficilissimo da maneggiare criticamente, A Ghost Story è più un film consacrato alle qualità affettive dello spazio che alle proprietà distruttive del tempo. È lo spazio come matrice narrativa e sentimentale, insomma, a costituire la spina dorsale del film, mentre il tempo, avvitandosi su se stesso e aprendo voragini incommensurabili, tende verso la direzione opposta, quella della dissoluzione. Questi fantasmi che, anziché varcare la soglia verso l’aldilà, decidono deliberatamente di restare in questo mondo e presidiare i luoghi a loro cari somigliano un po’ a cani e un po’ a voyeur: dei primi hanno la fedeltà assoluta, dei secondi la propensione a scrutare, non visti, l’intimità dei loro oggetti d’affezione.
Ed è in virtù di questa tenacia voyeuristica che A Ghost Story si costituisce come dispositivo empatico di silente infallibilità: lo sguardo insistente del fantasma di C (Casey Affleck) avvolto in bianche lenzuola si raddoppia in quello della camera, che spesso riprende M (la vedova interpretata Rooney Mara) da posizioni speculari o solidali a quelle dell’ectoplasma.La camera osserva l’ectoplasma guardare amorevolmente M e questo sdoppiamento delle sorgenti di sguardo finisce per impegnare anche il nostro, trasferendo su di esso le caratteristiche empatiche sprigionate dalla presenza fantasmatica. Sicché anche i momenti più piattamente documentaristici e apparentemente anodini, come l’abbuffata di M con conseguente corsa in bagno a vomitare, si caricano di strazianti valenze affettive.
Valenze sconosciute ai dialoghi e alle parole pronunciate, incapaci di comunicare, fare presa sentimentale o raccontare una visione del mondo che non suoni clamorosamente come lettera morta (il discorso intriso di nichilismo di Will Oldham alla festa, che naturalmente indispettisce l’ectoplasma). In questa vicenda di fantasmi inconsolabili che vedono passare il tempo come un accidente al quale intendono resistere finché possibile, quello che conta è il permanere degli affetti che si coagulano nelle case, luoghi depositari di storie intime e messaggi nascosti negli interstizi: una canzone o una nota scritta non fa differenza, ciò che importa è scongiurare la vacuità del linguaggio verbale.
È un film di distanze A Ghost Story, distanze di spazio, di tempo, di rapporto, distanze incolmabili. È la storia di una coppia, lui Casey Affleck, lei Rooney Mara, una coppia separata da un incidente che fa perdere a lui la vita. Il loro rapporto però non si estingue con la morte, si modifica soltanto: lui diventa un fantasma, il più classico dei fantasmi carnevaleschi fatto da un lenzuolo bianco con due buchi per gli occhi. Il loro rapporto cambia, si distanzia, diventa un doppio rapporto unilaterale: lui la guarda, le segue, la osserva nella casa in cui abitavano, e in un certo senso continuano ad abitare, insieme, mentre lei elabora il lutto. Sono divisi da una barriera e per colmare la distanza che li separa lei si affida alla memoria degli oggetti (la musica, i libri, il foglietto), mentre lui le rimane accanto, la controlla. Lei tocca il riflesso di luce che filtra da una finestra, cercando un contatto fisico in un rapporto che è ormai totalmente immateriale, separato da una barriera che li distanzia nello spazio e perfino nel tempo, una scena che non può non riportare alla mente l' “Is it you? Or is it just me?” finale di Personal Shopper.
Il più grande merito di David Lowery sta proprio nel supportare quest'idea di distanza, di diversità di piani d'esistenza, proprio attraverso l'uso dei piani cinematografici. A Ghost Story è fatto di primi piani e campi medi. I primi piani incorniciano sempre un solo volto, mai più di un volto assieme, e gli stacchi di montaggio che separano l'uno dall'altro i primi piani sono sempre finalizzati a sottolineare la distanza dei volti in essi contenuti. Le figure intere invece sono sempre inquadrate in campo medio, il più delle volte fisso, come il lungo piano sequenza tenuto su Rooney Mara che si sfoga mangiando compulsivamente una torta alla cioccolata, emblematico dell'elaborazione del suo lutto. Sfuggono a questo schema solo 3 inquadrature che sono i puntuali contrappunti all'idea di distanza rappresentata. Il contrappunto ai primi piani staccati lo si trova proprio nell'inquadratura iniziale, una stretta su Rooney Mara e Casey Affleck che si abbracciano sul divano, unico momento di tutto il film in cui Casey Affleck non sia un fantasma o un ricordo, l'unico momento in cui lui è vivo e loro sono insieme, uniti e coesistono in piano, spazio e tempo. Il contrappunto ai campi medi invece sono le due uniche azioni riprese in dettaglio di tutto il film che, non a caso, sono speculari. In entrambi i casi si tratta di un movimento di mano e in entrambi i casi rappresentano il massimo punto di contatto tra i due separati dalla morte. Nel primo è lui, fantasma, che tenta di accarezzare lei distesa sul letto; nel secondo è lei, distesa sul pavimento mentre ascolta la musica da lui scritta, che allunga la mano nell'avvicinarsi inconsapevolmente al fantasma, tentando di raggiungerlo. Sono le due azioni che più di tutte tentano di colmare le distanze.
Concluso il primo tempo però A Ghost Story va oltre alla semplice elaborazione del lutto. Rooney Mara riesce in qualche modo a superare il trauma, lasciando la casa, trasferendosi, andando avanti e l'attenzione si concentra sul fantasma di Casey Affleck, rimasto unico spettrale inquilino di quella casa e, con essa, di quel rapporto. L'accettazione della morte da parte dei vivi si ribalta così nell'accettazione della morte da parte dei morti. Si apre così il secondo tempo dedicato all'imprevisto: l'elaborazione del lutto da parte del fantasma. Lowery estende il discorso, introduce un fantasma vicino di casa, suggerendo che ogni casa, e con essa ogni rapporto, ha il suo fantasma, condannato ad abitarla in eterno. Incapace al superamento, Casey Affleck si manifesta come un vero e proprio poltergeist, occupa la sua casa, cerca di impedire che qualcun altro occupi i loro spazi rendendo la vita impossibile ai nuovi inquilini. Lowery conferisce quindi una dimensione fisica al suo fantasma, una forza di volontà tale da valicare una barriera non oltrepassabile, una forza di volontà in grado si sedimentarsi e sopravvivere per ere intere, ma comunque incapace di colmare una distanza che nemmeno la circolarità del tempo può colmare. Perché, come realizza il fantasma vicino di casa, quando si rende conto che nessuno tornerà per lui dopo l'abbattimento della casa (“I don't think they're coming.”) l'unica cosa che resta da fare è abbandonare, scomparire.