TRAMA
Lui ritorna al paese alla ricerca della moglie che non vedere da più di dieci anni. Lei ritrova il marito che non vede da svariati mesi. Ma il paese in cui hanno vissuto sta cambiando, fagocitato dal “nuovo” che avanza…
RECENSIONI
Produce un efficace effetto di straneamento lo spiazzante "decollo" di molti edifici prossimi alla demolizione (una fuga delle tracce persistenti del passato?), così come la comparsa nel cielo di un disco volante (come a voler suggerire: i cinesi pronti a conquistare la galassia, o forse a sottolineare e stigmatizzare il peccato di onnipotenza di cui si macchiano i fautori della modernizzazione forzata del paese?). Ancora più spiazzante perché calato in un racconto realistico, condotto con uno stile piano, contemplativo, quasi documentaristico (non a caso girato in digitale e quasi gemello di Dong, nella sezione Orizzonti). Zhang-ke si conferma un talentuoso castigatore dei cattivi costumi del suo paese. Già gli scheletri degli edifici che facevano da sfondo ai lamenti dei protagonisti del suo precedente film, il sottovalutato The World, preannunciavano il naturale approdo ad un racconto che mettesse in primo piano proprio la "violenza" contro il paesaggio, contro il villaggio inteso come "luogo della memoria" e della Storia, che è l'anticamera, sembra suggerirci sommessamente il regista, del tramonto di una civiltà.
Oggettivamente vi è molta noia in Still Life, titolo che è un plateale avvertimento anche per lo spettatore più distratto. Ora, chiunque frequenti le sale cinematografiche da più di un paio d’anni sa che la noia è una sensazione tutt’altro che inutile: spesso dal tedio nascono piccole folgorazioni, sbocciano riflessioni che si tramutano in avventure mentali, distrazioni che fanno tornare al film con un carico emotivo supplementare. Spesso, insomma, la noia è lo stadio iniziale di un processo che stabilisce un dialogo più o meno fecondo tra lo spettatore e lo schermo. A volte invece resta noia. Inamovibile. Irremovibile. Ebbene, Still Life è un po’ l’una un po’ l’altra cosa. Cerco di spiegarmi sviluppando un’argomentazione alla noiosa altezza del film. Ovviamente il tema centrale del quinto lungometraggio di Jia Zhang-Ke è la ricerca: Sanming (Han Sanming) cerca in modo assai ostinato l’ex moglie e la figlia misteriosamente sottrattegli sedici anni prima; Shen Hong (Zhao Tao) invece cerca il marito di cui non ha più notizie, salvo sporadiche telefonate, da un paio d’anni. Sia Sanming che Shen Hong vengono dalla provincia settentrionale dello Shanxi (regione poverissima, caratterizzata dall’attività mineraria) e approdano a Fengjie, città sul punto di essere cancellata dalla Diga delle Tre Gole. Qui domina la “rilocazione”: l’evacuazione dell’antica città (più di duemila anni di storia) prevede il trasferimento degli abitanti nelle province vicine e la demolizione dell’intero centro prima dell’inondazione (articolata in più livelli di innalzamento idrico). E qui, inoltre, la noia domina sovrana, anche perché i tempi della ricerca sono geologici. I due “rabdomanti alla rovescia” riescono sì a trovare i loro cari, ma i tempi sono così dilatati e sospesi che collegare il ritrovamento alla ricerca iniziale è impresa ardua: compaiono nuovi individui sullo schermo che intrattengono rapporti con i cercatori, ma i sentimenti sono irrimediabilmente sommersi - ardita metafora - dal tempo trascorso fuori e dentro il film, sicché emozionarsi per queste vicende sarebbe possibile solo se affetti da gravi turbe psichiche. Al principio della progressione drammatica si sostituisce quello della “regressione drammatica”, insomma. Meno ovviamente, però, il tema fondamentale di Still Life è l’oscenità dello spettacolo, la mostruosità dell’ostentazione visiva, della rappresentazione che colpisce l’occhio. E qui Jia Zhang-Ke fa tutto fuorché annoiare, nel senso che varia il tema con una padronanza e un talento che mettono davvero i brividi. Il fatto è semplice e terribile (semplicemente terribile): la spettacolarizzazione del reale coincide con il suo irrimediabile occultamento. Punto. Ma è un punto in grado di organizzare un’intera poetica, di far ruotare attorno a sé le forme del visibile, di rielaborarle togliendo loro il superfluo, l’accessorio, lo spettacolare. Già in The World si notava questa preoccupazione montante, un senso di apocalisse visiva pronta a ghermire il reale nelle spire di una ripetizione disumanizzante. Il parco di The World, replica ansiogena dell’intero mondo ridotto a luogo comune, conteneva già questa angoscia ottica: l’illusione come euforia narcotica dello sguardo, pratica superficialmente entusiasmante ma profondamente demoralizzante. Nel denunciare attraverso forme spoglie e quintessenziali o tramite spiazzanti amplificazioni visive l’immoralità dello spettacolo sensazionale e dell’opera monumentale, Jia Zhang-Ke colpisce immancabilmente: un’esibizione canora letteralmente oscena viene interrotta da un taglio di montaggio che la raccorda a una martellata che si abbatte su una parete, il ponte fastosamente illuminato è (rap)presentato come vera e propria attrazione stupefacente, opera strabiliante, spettacolo (inequivocabili le parole di uno degli ospiti ufficiali: “È uno spettacolo imponente, incarna gli ideali del Presidente Mao, un bel colpo d’occhio davvero”). Anche i lavori di costruzione della diga, nella loro dimensione pubblica, sono rappresentazione ingannevole, menzogna visiva che occulta la realtà dei fatti: non solo per la discrepanza tra l’esaltante versione ufficiale e la deprimente situazione dei cittadini costretti ad abbandonare le loro case, ma soprattutto perché l’allagamento stesso sommergerà irreparabilmente la realtà storica di quel luogo (emblematico il testo della canzone dedicata al fiume: “Le sue onde portano via i nostri problemi. Non si distingue più ciò che è vero da ciò che è falso”). Per rompere il sortilegio della visione (“Che cosa cercano i vostri occhi? La meraviglia. Che cosa distrae la vostra mente? La magia”, recita lo slogan che attrae i passeggeri allo spettacolo di illusionismo sul traghetto), per neutralizzare la fallacia della rappresentazione (non è dato conoscere veramente attraverso le immagini: persino le fotografie della figlia sono ritratti irriconoscibili) occorre togliere, sfrondare, demolire: ecco allora che, una volta mandata in orbita l’oscena costruzione edilizia sulla collina, è possibile tornare a contemplare il cielo. Semplicemente, senza (c)ostruzioni. Oppure, al contrario, occorre fissare ideograficamente lo sguardo su quegli oggetti (sigarette, liquore, tè, caramelle) che testimoniano nella loro elementare e indistruttibile entità un’identità altrettanto consistente e irrinunciabile: tracce di un’archeologia umana del presente. Il resto è noia, ovviamente. Ma soltanto ovviamente.