TRAMA
Sam Foster, psichiatra, riceve il giovane Henry Letham, che confessa l’intenzione di suicidarsi nel giorno del ventunesimo compleanno.
RECENSIONI
Il thriller piscologico, con ibridazione realtà/sogno, ultimamente si concede a tutti; ci prova quindi Marc Forster, all'opera terza dopo l'acclamato Monster's Ball e Neverland, che finora lasciava ai più benevoli il beneficio del dubbio sul suo conto. Oggi lo fuga definitivamente: Forster è un cane che abbaia ma non morde, un animale da salotto di cui farsi lustro nelle riunioni mondane. Niente di serio, comunque: e la cosa peggiore è che girare Stay suona come una condanna definitiva perché significa, senza appello, non possedere i mezzi per comporre qualcosa di buono neanche dopo lustri e lustri di giri a vuoto. Stay subito nuota in una melma onirica, contaminando i piani senza soluzione di continuità; c'è uno spunto gradevole in potenza (un giovane confessa al suo psichiatra istinti suicidi) ma se da questo si vuole estrarre tutto il film è un grosso guaio, presto si abbraccia il pretesto impotente, il rimestare più volte in un brodo vecchio, l'andare distrattamente senza sapere dove. Solo così, a livello scenico, si spiegano le impunite iterazioni delle stesse sequenze - nella convinzione che moltiplicare, sgranare, ripetere una scena equivalga a sognare - che, studiate per evocare le nebbie del cuscino, si perdono sfocatamente nel dormiveglia della platea. Ma Forster non è pago: tra citazioni pacchiane (una sola lettera separa il regista dal protagonista), dialoghi da circo Orfei e personaggi terribilmente malvestiti - il look di McGregor morì negli anni '70 -, il geniaccio si concede impensabili licenze senza chiedere il permesso. Ecco dunque apocalittici giochi di luce, inquadrature artificiosamente angolate e spigolose, carrelli, noia micidiale. Se l'ovvio referente è Mulholland Drive, a cui fornisce gli estremi per una denuncia penale (incipit incidentale, teatro di posa come link tra livelli del racconto, Naomi Watts), Stay gironzola piuttosto a braccetto col Placido di Ovunque Sei, risultando l'operazione un vero disastro che non si priva certo dell'immancabile patina scult (il bacio del tricheco). Completa la frittata un cast in stato confusionale, dove la Watts folleggia impettita, il giovane Gosling parte col piede sbagliato, McGregor si scava finalmente la fossa. Appena meglio la risma di caratteristi, peccato che il solito puntuale Hoskins tanto si affanni su una figurina prossima alla figuraccia.
L’opera conferma il talento del tedesco-svizzero Marc Foster, regista evidentemente ossessionato dal tema della morte: a parte l’abilità nell’intessere un racconto misterioso, è il suo cinema a denunciare, fin dalla prima inquadratura, che ci troviamo nello stato sospeso e allucinato dell’incubo, se non del subconscio. È ammirevole il modo in cui dà vita, come fanno i sogni, ad un montaggio delle attrazioni che annette gli ambienti più disparati, inserendo frammenti di ricordi in un qualsiasi schermo in scena, accostando una sala universitaria ad un acquario con trichechi che diventa l’anticamera dell’interno di un appartamento. Non era facile creare un simile universo, anche perché non siamo di fronte a un fantasy ma ad un thriller psicologico con soggettiva della mente che s’aggancia a personaggi reali: tutto doveva risultare plausibile, semmai falsato da una percezione solo momentaneamente alterata, al limite identificato come un preziosismo della regia atto a creare la giusta atmosfera. Il racconto di David Benioff (La 25ª Ora), però, mette prima in campo un rapporto alla Schegge di Paura, poi fa temere una soluzione banale con sdoppiamento di personalità (quando i ruoli di Ewan MacGregor e Ryan Gosling si sovrappongono), infine opta per un finale tanto aperto (che rivede il tutto con nuova chiave di lettura) quanto comodo (era tutto un sogno). Peccato: il viaggio è stato più affascinante dell’approdo, con i suoi dettagli disseminati nelle presunte coincidenze, le sue situazioni bifronte in veste di simbolismi.