TRAMA
Lei, lui, loro: due coppie e quattro solitudini.
RECENSIONI
Due percorsi, due segmenti, due itinerari, due movimenti opposti nello spazio pubblico e privato: lei, sola per le strade di Seul, salvata da un immigrato di origine nordcoreana; lui e lui, giovane prostituto il primo, uomo d’affari il secondo. Jultak dongshi (Stateless Things) è la notevolissima quarta realizzazione del coreano Kim Kyungmook, il miglior film di fiction della sezione Orizzonti 2011. Storia di solitudini silenziose, di figure “senza stato” come già i personaggi che popolavano i precedenti “senza” del regista (Faceless Things del 2004 e Sex/Less del 2009), l’opera si articola in due episodi omogenei nella forma, tematicamente affini e in grado di attivare due procedimenti complementari di intimizzazione dello spazio pubblico (il primo) e di esteriorizzazione dell’intimità (il secondo). Il primo segmento narrativo, che rende conto delle peregrinazioni di un ragazzo e di una ragazza per le vie del centro, proietta inizialmente le due identità, senza dimora e in movimento, nello spazio anonimo e alienante di una grande metropoli, investito così di soggettività e cassa di risonanza d’insondabili lacerazioni interiori. Tale deambulazione, calata in un quadro urbano che la incornicia senza per questo fissare anime che restano migranti, culmina in uno splendido frammento che pare esplicitare le dinamiche soggiacenti all’itinerario urbano: i due protagonisti scelgono i luoghi da visitare su Google Map, la visione satellitare introduce e accompagna la visita e scandisce ogni tappa del loro viaggio. Al termine dell’itinerario cittadino, la coppia decide di separarsi dal mondo ripiegando nell’appartamento della ragazza.
Nel secondo episodio il movimento è contrario: dall’esposizione dell’intimità nella lacerante e struggente contemplazione di amplessi impossibili o compulsivi, culminante nel lungo piano sequenza in cucina, all’uscita in strada e al ritorno al mondo, unica possibilità di salvezza dopo aver sfiorato, letteralmente, il soffocamento tra le mura domestiche.
Kim Kyungmook integra nel suo cinema, con naturalezza e senza complessi, alcuni evidenti referenti (da Hou-Hsiao-Sien a Tsai Ming-Liang), aggiungendo di suo un’innegabile capacità di suggerire l’abisso di disperazione dal quale affiorano parole sussurrate e gesti maldestri.
