Fantascienza, Horror, Recensione

STARSHIP TROOPERS

Titolo OriginaleStarship Troopers
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1997
Durata128'

TRAMA

Futuro: per colpa di un tragico misunderstanding gli aracnidi giganti di Klendathu attaccano la terra. Meno male c’è la fanteria dello spazio…

RECENSIONI

Come on, you apes! You wanta live forever?
–unknown platoon sergeant, 1918

Questa la citazione che apre il romanzo Starship Troopers (1959), l’ultimo juvenile[i] di Heinlein, e che Verhoeven fa ripetere a Johnny Rico nell’ultima sequenza del film. Un modo semplicistico di mettere la cosa, e chiudere in fretta la questione, sarebbe forse questo: Heinlein prende(va) la citazione sul serio, condividendone e glorificandone il portato virile, eroico e “formativo”[ii], Verhoeven ne estremizza ironicamente il contenuto, ribaltando ipso facto il senso. Solo che le cose non stanno esattamente così (per fortuna, ci sono ancora le mezze stagioni). Il mediocre Bildungsroman spaziale dello scrittore americano, infatti, trova sì nel film di Verhoeven una parossistica e quasi parodica trasposizione cinematografica, ma anche una sorta di perversa, stratificata “conferma”. Checché ne dica il regista, che all’epoca parve sinceramente stupito delle accuse di fascismo mosse al suo film, le massicce dosi di ironia (autoevidente e per nulla sottile) che pervadono Starship Troopers, rivendicate dal regista a mo’ di autodifesa, non sono sufficienti a creare un vero distacco ironico. Anzi. Il continuo oscillare della pellicola tra due poli tematico/politici contrapposti, la sua sostanziale schizofrenia lo dota, forse preterintenzionalmente[iii], di una complessità e di una profondità perturbanti quanto affascinanti. E’ come se Starship Troopers entrasse in continua polemica con se stesso e fosse capace di sostenere e insieme confutare contemporaneamente due punti di vista, che poi sono due visioni del mondo, inconciliabili[iv]. La società autoritaria e “militecratica”, nella quale il diritto di voto è concesso ai soli cittadini che hanno svolto il servizio militare volontario, è anche una società paradossalmente giusta, dove non solo è scomparsa ogni forma di sessismo e di razzismo, non solo il problema della criminalità è stato quasi completamente debellato, ma dove i dissidenti sono lasciati liberi di vivere come meglio credono e non subiscono, diritto di voto a parte, limitazioni o privazioni di sorta (si vedano i genitori del protagonista, medio-alto borghesi dalla vita agiata e tranquilla)… non si sa proprio da che parte stare! Gli stessi personaggi del film suscitano emozioni contrastanti, da maneggiare con cura; si pensi proprio al protagonista Johnny Rico: nel romanzo di Heinlein era una figura pensante e riflessiva, consapevole delle proprie azioni e dunque facilmente “criticabile” dal lettore che si sentiva, in un certo senso, legittimato a detestarlo cordialmente. Nel film Johnny Rico (che pure ricalca fedelmente le orme del suo alter ego romanzesco)  è diabolicamente traslato in un ingenuo sempliciotto in balia dell’amore per il quale (e per gli ideali del quale), alla fine, si rischia di simpatizzare, perdonandogli finanche le mille ottusità e chiusure/deficienze mentali[v]. In linea generale, è comunque tutta la dicotomia pacifismo/militarismo, violenza/nonviolenza a essere messa in discussione da Starship Troopers, o meglio, a essere fedelmente restituita in tutte le sue infinite, ambigue sfaccettature e contraddizioni[vi]. Alla faccia di chi crede di avere le idee chiare. Ma tutto questo lo si può benissimo considerare un accessorio, il (plus)valore[vii] aggiunto di un avvincente fantavventuroso come non se ne sono mai visti, foriero di risate cattive e liberatorie, efficacissimo nella sua bipartizione à la Full Metal Jacket (addestramento – guerra), carico dell’ultraviolenza esplicita che non ti aspetti, tecnicamente ineccepibile e tecnologicamente à la page (il mix di modellini, green screen e CGI funziona alla perfezione, anche a distanza di quasi due lustri), con attori perfetti (il bamboccio Casper Van Dien su tutti, utilizzato in maniera mefistofelica come solo Hitchcock[viii] avrebbe saputo architettare) ma soprattutto baciato dal “Verhoeven touch”, capace di trovare quell’incredibile equilibrio tra superproduzione e B-movie[ix], sorta di limbo magico tra il patinato e l’eversivo, il ricco e l’indipendente che sa tanto di miracoloso. Il mio film preferito.


[i] Benché lo stesso autore amasse definirlo “un romanzo per adulti che racconta le avventure di un diciottenne”. In effetti, in un certo senso, ha ragione Robert: Starship Troopers annoierebbe a morte qualunque ragazzo degno di questo nome.

[ii] Negli acknowledgments del romanzo, Heinlein chiarisce senza possibilità di replica la sua idea militaresca di “conseguimento della maggiore età” dedicando Starship Troopers “to all sergeants anywhen who have labored to make men out of boys”.

[iii] Accantonerò subito la questione prima che le cose si mettano male (almeno fino alla prossima nota), ma diciamo che barthesianamente ipotizzerò la morte dell’autore e mi limiterò a dare del testo-film un’interpretazione basata sul crudo testo, che tenterà invano di prescindere da infantili quisquilie del tipo “cosa avrà voluto dire Verhoeven e perché?”

[iv] A quasi totale smentita della nota precedente, butto lì en passant un’ipotesi causale personalistica della natura duplice e metamorfica del film, che potrebbe essere il sostanziale disaccordo interpretativo tra Verhoeven e lo sceneggiatore Neumeier. Sentirli battibeccare, nel commento audio presente nel DVD, sul “messaggio” del film è un vero spasso; in sostanza, il regista olandese ha letto nel copione una feroce parodia della politica imperialista americana, mettendo l’accento sul ruolo predominante della violenza/guerra in materia di politica estera. L’autore di quel copione, invece, no.

[v] Per Rico, anzi, si fa spesso un tifo da stadio, come quando lo si ammira cavalcare e poi trucidare un insetto gigante, sperando (noi con lui) che il suo vecchio insegnante lo noti e dia finalmente al valoroso Johnny quel che è di Johnny.

[vi] Tali ambiguità sono presenti nella pellicola a tutti i livelli, anche i più immediati, per leggere i quali non occorre certo darsi all’ermeneutica: qualcuno potrebbe obiettare, ad esempio, che il nemico (gli aracnidi from outer space) è completamente disumano, irragionevole e, in ultima analisi, cattivo senza volto né sfumature. Falso. Una breve sequenza del film, che in genere passa inosservata, chiarisce infatti che la guerra nasce perché una comunità di estremisti mormoni (sic) si è inopinatamente insediata in territorio nemico suscitando le ire degli occupanti. I bugs di Klendathu, dunque, stanno tecnicamente reagendo ad un attacco nemico e non attuando una feroce invasione senza perché e percome. Lo stesso tema torna in una sequenza successiva, quando un giornalista chiede ai soldati se non sarebbe forse preferibile una “live and let live policy”, dato che in fondo gli insetti sono stati provocati; Rico risponde “kill them all” e il giornalista “guarda in macchina” dubbioso… si tratta di quella che Casetti chiama interpellazione, è infatti il pubblico a venire interpellato: “e tu da che parte stai”? Qui nasce il turbamento, ché nello spettatore sul buon senso prevale la voglia di azione (cinematografica e non) che induce la condivisione della becera sentenza capitale di Rico e non delle moderate, pacifiste parole del giornalista.

[vii] A proposito di plusvalore: memorabile la misera paginetta del romanzo di Heinlein nella quale si liquida sommariamente Marx, il marxismo tutto e il concetto di “valore” culminando con “il prezzo delle cose migliori è agonia, sudore, devozione, fatica e lacrime”.

[viii] Penso, e voi con me, al James Stewart di Rope.

[ix] La cosa trova una sua esemplificazione visivo/filmica nelle sequenze strettamente spaziali che coinvolgono le astronavi: si passa, ora con stacchi di montaggio ora con long takes a base di morphing, dagli sfarzosi e superprodotti esterni, gentilmente offerti dalla ILM e Sony Imageworks, a degli interni assai più poveri e ingenui, da “fantascienza di una volta”.

Paul Verhoeven si riunisce allo sceneggiatore di Robocop per questo adattamento del romanzo di Robert Henlein (1959), in cui fa ancora sarcasmo sui media (gli spot “Arruolatevi!” del Network) unendo fantascienza, ironia e cruda violenza. Immagina un futuro con regime totalitario stile “fascista”, dove i giovani sono vittime della propaganda militarista e, dalla commedia giovanile con toni farseschi, dove il miraggio della divisa (e del suo eroismo) mantiene le vesti di una dolce chimera, passa alla durezza dell’addestramento militare in Accademia per poi mostrare l’orrore della guerra attraverso una guerra degli orrori. Gli ottimi effetti speciali dei raccapriccianti insetti raffigurano come gli esseri umani vedono il nemico, cullati nel machismo, nell’esaltazione collettiva, nell’odio e nella superbia. Ma non sarebbe Verhoeven senza ambiguità: il fascino della battaglia c’è tutto, nonostante la contemporanea repulsione per i suoi effetti sulle carni, e il regista non è così diretto nello stigmatizzare i suoi protagonisti, belli e di plastica, come eroi eterodiretti di cui la società sfrutta desideri, proiezioni e bisogni, oppure stupidi che meritano il macello. Poco importa: Verhoeven ama anche scioccare e la pellicola si fa sempre più splatter e feroce, raggiungendo l’apice durante la battaglia da Fort Alamo nel deserto. Immancabili le sue tipiche figure femminili volitive e mascoline, in un mondo dove è scomparso il desiderio sessuale nella promiscuità (la doccia comune, ecc.). Il fantahorror anni cinquanta è tornato, tesissimo, orripilante, buffo, allusivo, da culto! Curioso che, nello stesso anno, sia apparso anche La Seconda Guerra Civile Americana di Joe Dante.