TRAMA
Anni Cinquanta, gli ultimi giorni di un’estate qualunque, in un posto qualsiasi (Castle Rock, Oregon): quattro dodicenni vanno alla ricerca di un cadavere.
RECENSIONI
No hay caminos hay que caminar.
Il viaggio non è un percorso da un punto a un altro, ma ciò che vediamo e sentiamo durante il tragitto, le persone che incontriamo, i luoghi che sfioriamo, i sentimenti, le gioie, le paure, le nostalgie che ci assalgono.
I ragazzi partono con un fine preciso: ritrovare il cadavere di un giovane scomparso e diventare eroi. Durante il viaggio, lo scopo della spedizione diviene sempre meno importante, sino alla negazione finale (i ragazzi fanno quello che avrebbero potuto fare dall’inizio). La loro missione, avventata, se non impossibile, è compiuta, ma non sortisce il risultato sperato. Almeno, non quello sperato in maniera esplicita.
Se la gita ha un senso, è quello di rafforzare i legami fra i componenti del gruppo, di permettere l’espressione di un affetto dissimulato da scherzi e derisioni, ma autentico. La cornice della storia (uno dei quattro, divenuto scrittore, raccoglie i suoi ricordi in un racconto) ribadisce tale finalità spirituale, prioritaria rispetto a quella pragmatica: il presente (la morte di un vecchio compagno) induce, quasi costringe a rievocare il passato (la ricerca del corpo del ragazzo ucciso dal treno) allo scopo di ritrovare, nella memoria, un sentimento che il tempo non ha cancellato o diminuito, ma solo posto in disparte, e che, se non può rivivere nella stessa maniera per la stessa persona (la separazione dei ragazzi nell’ultima sequenza), troverà nuova vita nell’esistenza di altre persone (il figlio dello scrittore e il suo amico) e, comunque, sarà uno dei ricordi più intensi di chi l’ha vissuto.
Sentimento, certo, ma anche risentimento: l’elegia del periodo che precede la pubertà non esclude uno sguardo a dir poco feroce sul mondo degli adulti e degli adolescenti stessi, sordi alle esigenze dei bambini, arroganti e fondamentalmente stupidi, incapaci di idee o sentimenti profondi e personali, o anche solo di considerare i “piccoli” come esseri distinti dagli sciagurati parentadi che si ritrovano. I quattro devono sopportare il peso di fratelli maggiori prepotenti, estranei crudeli, genitori indifferenti: Truffaut incontra Zola tramite King.
È possibile percepire, neppure tanto velata, l’idea, terribilmente persuasiva, che la morte sia l’unico mezzo per evitare di perdere non tanto l’innocenza, che non esiste e, se esiste, non ha importanza, quanto la capacità di essere umani, nel senso più semplice della parola: l’unico (quasi) adulto comprensivo e gentile è il fratello (bel cammeo di un giovane John Cusack) del narratore, che, guarda caso, compare solo quando il ragazzino evade dalla realtà di una famiglia scostante per rifugiarsi nel mondo della narrazione. Forse il solo modo per non perdersi, per non morire dentro, è proseguire il gioco, continuare a narrare storie, non importa se destinate ad approdare da qualche parte (il racconto senza una vera conclusione).
La vita è un lungo binario pericoloso, ma se lo si percorre uniti c’è qualche speranza di sopravvivere: si possono perdere le cose (il berretto, il pettine), non i rapporti. Reiner garantisce una regia impalpabile e qualche tocco di poesia (il daino). Attori perfetti: indiscutibile, comunque, la superiorità di River Phoenix, prematuramente strappato, come il suo personaggio, all’affetto di chi ama il cinema.