TRAMA
Londra, 1660 circa: Ned Kynaston è il più celebre teatrante en travesti, specializzato nel repertorio shakespeariano, finché un editto di Carlo II non vieta agli uomini di recitare in abiti femminili.
RECENSIONI
Già artefice teatrale di un superbo RICCARDO III nazista (ripreso al cinema da Loncraine), Eyre torna al mondo del Bardo con un film di gusto palesemente stoppardesque ma superiore alla media del genere (specie se come punto di riferimento si assume il melenso SHAKESPEARE IN LOVE). La (pseudo)biografia di Kynaston, ultima drag queen nell’Inghilterra degli Stuart (il personaggio è storico, l’intreccio proviene da una commedia di Jeffrey Hatcher, che firma lo script), è il pretesto per una messinscena di sfarzosa e ostentata teatralità: al centro della scena, la relazione simbiotica e vagamente masochistica fra vita e arte. I personaggi sono prigionieri del teatro: ogni ambiente è un palco, uomini e donne recitano la vita cambiando continuamente maschera, la realtà è la proiezione di un sogno da cui ci si desta con le ossa rotte, nei pressi di COMPTON HOUSE. La vita pretende d’imporre all’arte le regole della verosimiglianza, facendo a pezzi il sublime(/ridicolo) feticcio della DONNA (im)PERFETTA, ma è pura illusione. I confini tra i sessi rimangono fluidi: la donna porta i pantaloni, alla lettera (la capricciosa amante del Re) e metaforicamente (Maria che affranca Ned dalla locanda/postribolo), l’uomo piange la propria incapacità di fingersi maschio, il sesso e l’amore sono momenti di una prova tecnica. Sarà la parola scenica a offrire la soluzione: i rivali cesseranno (definitivamente?) di essere bellezze da palcoscenico per onorare una sola, celestiale Diva, la poesia di Shakespeare. Appesantito da figure didascaliche (l’onnipresente cronista Samuel Pepys) e dialoghi a tratti pedanti (il congedo dal Duca di Buckingham), STAGE BEAUTY è un divertissement che non dice nulla di nuovo ma lo dice con garbo, trovando i suoi punti di forza nella sceneggiatura (nel complesso lieve e brillante, un po’ frettolosa nella parte conclusiva) e nel cast, in cui spicca un imbalsamato Rupert Everett (con boutade anticlericale di sferzante attualità). Vertice assoluto il finale di Otello, uno dei migliori mai visti sullo schermo, in cui Crudup e Danes (che nel resto del film recitano giustamente sotto le righe) si scatenano come i rispettivi personaggi, strappando anche il nostro applauso a scena aperta (quasi un miracolo, dato il molesto filtro del doppiaggio).
