TRAMA
Tre ragazze vengono rapite da un uomo con 23 personalità diverse. Anzi, 24.
RECENSIONI
Lo Shyamalan più teorico e, insieme, pratico/basico di sempre. L’impressione di chi scrive è che Split sia veramente un film diviso, scisso, schizofrenico, capace cioè di intercettare due tipi di pubblico distinti e distanti, due personalità spettatoriali divergenti: lo shyamalan-iano DOC, comodamente impantanato nel secondo/terzo grado di lettura, e lo spettatore distratto che bada al sodo e si fa poche/punte domande. Tertium non datur. Perché se di domande te ne fai un po’, ma non abbastanza, l’ultimo film di Manoj rischi di trovarlo un po’ banalotto, a tratti quasi ridicolo. Conoscendo il tipo, non mi stupirei se il tutto fosse assolutamente voluto – ossia – se il film fosse stato concepito con l’intento di creare proprio un double feature autoreferenziale. E per giunta, autoreferenziale in maniera del tutto obliqua, quasi autocritica.
Il cinema di Shyamalan, si sa, è noto per essere un emblema esemplificativo dei cosiddetti mind game movies, ossia dei film che invitano lo spettatore a giocare col film stesso, a cercare di scoprire il trucco, magari a posteriori, che regge il film e che conduce al finale wow: Bruce Willis era morto! Film disseminati di segni, di esche narrative, di tasselli destinati a trovare un incastro fulmineo e spesso improbabile. Ma nondimeno atteso. Ovviamente, M. Night, dopo Il Sesto Senso, era già tornato sul proprio cinema con piglio decostruzionista, basti ricordare il già (cripto)citato Signs o il bellissimo The Village. Ma in Split fa qualcosa di più, e di diverso. Il trucco, a ben vedere, lo svela subito. La chiave per capire il finale è già tutta lì, nella splendida sequenza iniziale. Kevin e Casey sono complici, hanno un legame forte. Lui la tratta diversamente dalle altre, lei lo capisce prima delle altre. Il finale, cioè, è già nella prima sequenza. Ribadita da una splendida inquadratura, che arriverà di lì a poco, in cui un espediente linguistico specificatamente filmico, lo split screen, viene reso pro-filmicamente e chiarisce la singolarità del personaggio di Casey dentro e fuori dall’universo diegetico. E’ la prima volta che questo fenomeno si verifica nel cinema di Shyamalan, che stavolta sembra propendere per un puzzle movie in testacoda, volendo, più nolaniano. Basti citare The Prestige, in cui la prima sequenza (i cappelli clonati), di fatto, anticipa e svela il finale.
Il resto del film, sembra un autoconsapevole thriller psicologico moderno visto con gli occhi di Shyamalan che omaggia De Palma mentre rifà, ovviamente, Hitchcock. E’ impossibile guardare Split senza pensare, almeno, a Raising Cain. E magari anche a Dressed to kill. Così come è impossibile non cogliere l’ironia del regista che per tutto il film mostra solo pochissime delle sbandierate 24 personalità multiple del protagonista, esposte a uno sguardo sinottico solo nel finale e, di nuovo, con uno split screen on screen(s). E che comunque, a film apparentemente concluso, si fa beffe dello spettatore e chiude col vero colpo di scena shyamalaniano 2.0. Ossia: se la rivelazione che Kevin riconosce in Casey un suo simile, e la grazia in nome del conseguente idem sentire, non è – come abbiamo visto - una vera rivelazione, l’apparizione improvvisa di Bruce Willis / David Dunn impone invece una fulminea (ri)lettura del film in chiave sequel di Unbreakable, anticipa l’ipotesi-trilogia e instaura un dialogo a distanza con i Marvel/DC Movies dei quali Split si configura come una specie di parodia-non-divertente, in cui il Supereroe (Dunn) si prepara a combattere contro il Supercattivo (Kevin) del quale è stata appena mostrata la complessa genesi.
Ora, abbiamo fatto un sacco di discorsi ma Split, da vedere, com’è? La mia impressione è che, per uno spettatore consapevole, diciamo, sia meno divertente che da ripensare. Per ca(r)pirne la bellezza, cioè, c’è bisogno di andare sotto la superficie e darsi all’onanismo esegetico. Perché al netto dell’onanismo, si tratta di un thriller psicologico quasi basico/primitivo che rischia di annoiare o di strappare qualche sorriso di circostanza. Proprio come accade al De Palma più teorico.
La rinascita di M. Night Shyamalan, per quanto in territori prepotentemente di genere, è confermata dopo The Visit, grazie ai modelli produttivi di Jason Blum: Split è un thriller della mente egregiamente scritto ed eseguito. Il cameo finale di Bruce Willis cita l’Uomo di vetro, ossia Unbreakable, film continuamente richiamato e di cui Shyamalan considera Split una sorta di spin-off: il personaggio di Kevin, infatti, nacque proprio allora. Le due opere, per quanto con segni diversi, condividono la missione dell’autore di convincere che esista lo straordinario nell’ordinario. Tema (fanta)scientifico a parte, il film vive soprattutto della splendida performance di James McAvoy in più ruoli, 8 per la precisione (per quanto se ne dichiarino 23), e del meccanismo di caccia fra gatto e topo, quando quest’ultimo è già in trappola e tenta la fuga in più modi. Ingredienti trasparenti, semplici, a regola d’arte e con il tocco autorale di un regista che abita il thriller con la missione di donare la Fede (anche) in ciò che non vediamo, da cui anche lo svelamento progressivo ed in flashback, mettendosi dalla parte dei più deboli (di solito i bambini) e, qui, classificando i “mostri” in differenti categorie: perché la sofferenza può diventare una via di salvezza, perché agli occhi della bestia si evolve con il dolore subito e non inflitto.