Biografico, Drammatico, Recensione, Streaming, Thriller

SPENCER

Titolo OriginaleSpencer
NazioneU.K.
Anno Produzione2021
Durata111'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Natale 1991, Sandringham House, Norfolk: la famiglia reale inglese si prepara ai festeggiamenti, secondo tradizione. Diana è in ritardo, è confusa, si è persa, è altrove, non mangia, mangia di nascosto, ha visioni inquietanti di Anna Bolena, è assediata dai ricordi, vuole fuggire, vuole il divorzio.

RECENSIONI

Lo scorso giugno, alle soglie del suo 75esimo anno d’età, posa per la prima volta per Vogue UK la Duchessa di Cornovaglia, futura Regina consorte, Camilla, un tempo nota come Parker Bowles: probabilmente il gesto più “post-” occorso dalla scomparsa di Lady Diana Spencer. Camilla è smagliante nel suo abito blu zaffiro firmato Bruce Oldfield, couturier che vestì anche la compianta principessa del Galles e che affermò di aver dato “a Diana un tocco internazionale e glamour, a Camilla la fiducia in sé stessa”, all’interno di un confronto inevitabile che, se taciuto, sembra già autocensurato. Tuttavia la differenza sostanziale, a 25 anni da quella tragica notte parigina, è che Camilla è viva e posa per Vogue, Diana è lo spettro dolce della principessa che fu, protagonista tardiva -sempre in ritardo!- di una “favola tratta da una tragedia vera”, come Pablo Larraín presenta il suo Spencer, film nubile, inquieto, evanescente, innamorato, danzante, traballante, psichiatrico.

Nel bel mezzo di una gelida corte di campagna, in cui giungono, blindatissime, full metal jacket, le provviste per i festeggiamenti, Diana si è persa: “where the fuck am I?” sono le sue prime parole, manifesto dichiaratorio di una figura irrisolta consegnata al culto popolare, al ricordo collettivo, in un’epoca contraddittoria, la nostra, profondamente nostalgica e ossessivamente presentista e votata all’istante; ma sono soprattutto dichiarazione di guerra larrainiana al reale, al filologico, al biografico, all’istituzionale, per votarsi all’esilità di una Kristen Stewart che tramuta la malinconica, ribelle Diana in una figura sbilenca, tutta visioni e ossessioni, non più Personal Shopper ma manichino vivente, da vestire per ogni occasione, ma a cui la propria vita sta stretta, e che trova conforto in uno spaventapasseri con una giacca piena di ricordi. Tra l’inafferrabilità di un’immaginaria Carlotta Valdes e l’appiglio pericolante ad Anna Bolena, Diana è una figura hitchcockiana in uno spazio kubrickiano, una vertigine nella storia già scritta e nei suoi spazi geometrici. Abita il film come una passerella scomoda, con l’impaccio di chi è al centro di una scena forzata, di un rituale posticcio, che aumenta la sua repulsione, il suo rigetto, dunque la sua protesta: come quella Marilyn Monroe che in Misfits, di fronte alla cattura dei mustang nella prateria, protestava, scossa di fronte a un mondo di uomini che non riuscivano a capire, e a capirla, Diana si ribella alla caccia, di fronte a una corte che non la conosce e che lei sta disconoscendo.

Non mangia, mangia di nascosto, si strappa via dal collo un filo di perle enormi e rumorose; attraversa la campagna in abito da sposa come una Kirsten Dunst di Melancholia liberata dalle stringhe e dal ralenti soffocante in carrellate malickiane; veste abiti da sera con la scintilla residua di una Grace Kelly già scomparsa; passando per stanze, prati e corridoi, torna bambina e si libera in una danza di vestiti che sono un susseguirsi di visioni familiari, per lei e per noi: ogni abito del film è un ricordo inesatto, qualcosa che crediamo di sapere o di aver saputo. Lo straordinario lavoro di Jacqueline Durran, nel vestire questa Diana vintage contemporanea, più che di ricostruzione è stato di decostruzione, passando per il fitto archivio di immagini che ritraggono la principessa, per ricrearne un doppio che ne contiene i motivi, ma non il calco, che la evoca senza imitarla, senza riprodurla, restituendole un’infantile, fiabesca, tragica libertà. Un nome classico e intramontabile si cela dietro pezzi iconici, senza il quale nulla sarebbe stato lo stesso: Chanel, che Diana amava particolarmente e di cui Kristen Stewart è brand ambassador dal 2013, cosa che ha aperto le porte della maison fino ad autorizzare la riproduzione -in questo caso sì-di un abito da sera della primavera dell’88 troppo fragile da indossare dopo tanto tempo, in 1034 ore di lavoro.

Nel vortice di visioni e irrequietezze, che è in fondo una confessione d’amore, trova spazio una confessione d’amore diegetica, quella di Maggie, la royal dresser -guardacaso- di Diana, a dar voce a una devozione silenziosa, a conferire la realtà di un sentimento all’irrealtà della vita quotidiana. Ma soprattutto a dare corpo allo spettro inafferrabile dietro al vestito, dietro la corte, dietro le quinte. A indicare una via di fuga. Che si presenta postmoderna e pop, quindi già datata, come happy end di un film che gioca coi generi cercando il proprio. Un film che possiamo amare come l’illusione di vivere due volte, o molte altre volte: come un film, per l’appunto. O che possiamo detestare per le aspettative disattese, per la verità che non sta dicendo, per la risposta che non ci sta dando: come un film, per l’appunto.
Di certo, ritagliato, stropicciato, strapazzato com’è, non possiamo indossarlo, né togliercelo di dosso, e questo suo turbine di sensazioni e smarrimenti è probabilmente destinato ad essere pensato e ripensato, provato e riprovato, davanti allo specchio di altri tempi, di altri ricordi, che appare mentre il mondo va inevitabilmente avanti, sempre avanti, sempre in fuga da sé stesso.