TRAMA
Speed è sempre stato un sognatore ed un aspirante pilota, sulle orme del fratello “scomparso”. Riuscirà a resistere alle tentazioni del lato oscuro, vincere il GRand Pirx, baciare in pubblcio la sua bella, dare nuova speranza al team Racer?
RECENSIONI
Nel momento in cui si deve affrontare intellettualmente Speed Racer si viene stritolati da un certo senso di disperazione. Ci sono elementi in ballo che rendono difficile discernere e, in fine, scegliere una procedura critica che renda onore del complesso del film. Innanzitutto è un lavoro dei fratelli Wachowski. Questi sono diventati con Matrix -e in parte con l'adattamento di V per Vendetta - idoli nerd, manipolatori tecnologici, innovatori. Quanto questo poggi su basi false è evidente fin dalla tanto lodata idea dell'utilizzo estensivo del green screen per la trilogia di Neo. Una pratica il cui impiego diviene pervasivo e se nel primo capitolo della trilogia questo arriva ad ottenere soluzioni visive interessanti, non lo si può certo dire per i due, raffazzonati, sequel. Per essere sbrigativi e nemmeno troppo crudeli, poi, la premiata fratellanza non ha dato molto più alla memoria del cinefilo, oltre ai suddetti ed a Bound – Torbido inganno, un sollazzo di genere con tocchi di prurigine.
Una seconda istanza più vicina è che Speed Racer è l'adattamento di un cartone animato giapponese di almeno due decadi fa. Una terza istanza, quella più sconvolgente per chi scrive è che si scopre il prodotto fosse destinato ad un pubblico prepubere – dai 10 ai 13 anni – abituato a cosa dunque? Partendo di qui la prima cosa che si nota è l'aspetto prossimo al videoludico, il p.o.v. Dal muso della macchina o leggermente sopraelevato che fa tanto videogame fino alla conformazione delle piste (qui per età noi al massimo possiamo pensare a Trackmania Nations) e al sistema di salvataggio del pilota. Questa prospettiva preadolescenziale mette nella pessima posizione di dover fare delle scelte intepretativo-critiche di base. Non possiamo sapere, né mai potremo, se Speed Racer sia di vera soddisfazione per il pubblico target. E no, non lo rivedremo per la terza volta con cavie umane collegate ad elettrodi. Viene fuori tutto l'animo di chi quell'età l'ha passata e che, per farla molto breve, ha trovato il film dei fratelli Wachowski di una noia mortale. Ma non è quello un approccio critico. Però, capiamoci, almeno umanamente.
Un'ulteriore questione è poi il sistema estetico di rappresentazione scelto dai registi, colori fluo, forme tondeggianti, caratterizzazione basilare su scala cromatica di buoni e cattivi. Dal nostro ristretto punto di vista dunque non solo ci è impossibile apprezzare la semplicità facilona della trama (gli inserti comici demenziali, agnizioni mancate per un pelo) ma anche trovare appigli per dissezionare un insieme che respinge in quasi tutto. Se si eccettuano la sequenza onirica di Speed bambino realizzata con una tecnica che simula i pastelli a cera e la notevole, ammettiamo, sequenza del Grand Prix che termina in un orgasmo macchinico luministico, realizzato con una complessità notevole dalla gestione dei colori alle tempistiche, ben poco rimane.
Tornando alla prima istanza tirata in ballo però ci permettiamo uno slancio a nostra volta nerd nel notare il sistema degli effetti visivi coordinati dalla Digital Domain. Non solo gli attori – tutti un po' ridicoli, senza scampo anche Cristina Ricci – hanno sempre recitato senza scenografie ma il green screen utilizzato era di complessità notevole. Il sistema sviluppato sfrutta le potenzialità del QTvr (qui esempio notevole , è basato su QuickTime) creando delle “bolle” in CG attraversabili in ogni direzione dalla m.dp. Virtuale. Collegando questi microcosmi in un percorso visivo, in real time era possibile proiettare la risultante sul green screen su cui recitavano gli attori (su CG World).
L'inconoscibile è qui, ne prendiamo atto.
Posto che interrogarsi sulla “wachowskianità” di un film come Speed Racer è attività oziosa quant’altre mai, lo facciamo subito e con una certa voluttà. Profilmico liofilizzato e ricreato “a bolla” (bubble technology: immagini ad alta risoluzione proiettate su sfere in modo tale da essere circondati a 360°) + immanenza del complotto (la World Racing League come gigantesca combine) + tecnocrazia (l’impero Royalton congloba economia e tecnologia) + segnaletica criptognostica (la lucentezza come indice di comprensione della missione personale: si accende la lampadina, si capisce di avere le corse nel sangue) = Wachowski Brothers. A questo pugno di ingredienti WB se ne potrebbero aggiungere altri, ma per non esagerare con l’oziosità conviene passare ad altro, alla questione estetica ovviamente. Pesantezza è la parola chiave: la trasfigurazione iconografica stenta a macinare il tutto, frammenti di visibile restano inchiodati alla materialità primaria. Sfilano inquadrature con lo sfondo raggiante ma ancorate alla staticità dei primi piani umani: corpi bloccanti. All’incalzare delle lamiere, la materia si impone nella sua concretezza, zavorrando (ma sarebbe più appropriato dire atterrando) la sfrecciante cinetica del film. L’alchimia è malriuscita, plasticità e concretezza non si fondono in vettore espressivo, al contrario dilaniano l’unità estetica del film in tronconi disgiunti: da una parte le macchine, dall’altra gli esseri umani. In mezzo una bolsa storia familista allattata dalle mammelle hollywoodiane. Emile Hirsch, Christina Ricci, John Goodman, Susan Sarandon, Matthew Fox, Hiroyuki Sanada, la popstar coreana Rain e Melvil Poupaud: miscasting su tutta la linea. L’unico in parte? Chim Chim, lo scimpanzé. Go Speed Racer Go!
Flop di critica e commerciale per gli autori di Matrix, almeno rispetto alle aspettative (e ai 120 milioni di dollari spesi per realizzare 2.300 effetti speciali): già in nuce sembrava un’idea balorda quella di trasportare al cinema l’anime giapponese “Superauto mach 5” (1967-68) di Tatsuo Yoshida, oltretutto concentrando tutti gli sforzi per ricreare la stessa consistenza da cartone animato. È, comunque e a suo modo, un esperimento rivoluzionario (si sono inventati, con l’ausilio della “bubble technology” che riproduce stanze virtuali a 360°, un effetto che riprende gli elementi in campo come se fossero tutti in Primo Piano, proprio come negli anime), volutamente inconsistente a livello di sostanza ed elaboratissimo (più che affascinante) a livello figurativo (ricordando, in questo, il precedente Ultraviolet): tutti gli ambienti sembrano “disegnati”, con accesi colori a pastello e gusto pop, retrò, anni cinquanta con pizzichi di futurismo alla Otomo, per un risultato debordante, kitsch, dal montaggio velocissimo. I Wachowski non hanno trovato pubblico, scontentando chi li aveva eletti padri della nuova fantascienza adulta e perdendo il target di bambini (nessuno li aveva informati) a cui paiono rivolgersi. Girato quasi tutto di fronte agli schermi verdi per ricostruire un universo digitale dove inserire gli attori in carne e ossa, sembra un altro, per avanguardia, Tron.