TRAMA
L’enorme afflusso di schiavi garantito a Roma, a partire dal II secolo a.C., dalle guerre imperialistiche ha fatto crollare il valore della merce umana, e ne ha perciò drasticamente peggiorato le condizioni di vita. Anche la disciplina è più violenta, per spegnere gli aneliti di rivolta nei più testardi e coraggiosi. Il trace Spartaco è fra questi; la lotta sua e del suo popolo (il popolo dei diseredati) per la libertà verrà spenta nel sangue.
RECENSIONI
Un film su cui pesano il giudizio aspramente negativo dello stesso autore, e più ancora la genesi non autoriale: giunto a sostituire Anthony Mann, Kubrick per la prima e ultima volta non poté mettere mano alla sceneggiatura (“stupida”, ipse dixit) e dovette scontrarsi con le pretese del produttore e protagonista Douglas. Si rimprovera a Spartacus di essere il figlio bastardo d'un artista che stentò a riconoscerlo come proprio. Non v'è dubbio che le sequenze più animate da retorica progressista o da sentimentalismo di maniera (l’una e l’altro aggravati dal doppiaggio italiano) sarebbero state espulse o rese inoffensive da un Kubrick pienamente padrone del suo lavoro. Ma ci sono molta mitologia e una dose di snobismo, dettato da un pestifero culto della personalità, nell'atteggiamento schizzinoso di taluni verso un'opera affascinante, rispetto alla quale ogni altro kolossal anteriore o successivo appare frivolo, pomposo, pettegolo, muscolare, paternalista.
Uno sceneggiatore guidato dall'utopismo marxista (Dalton Trumbo, per la prima volta ufficialmente al lavoro dopo l'ostracismo patito negli anni del maccartismo), e un regista radicalmente scettico circa i destini umani, si trovano a maneggiare un genere ingombrante come il kolossal (gigantismo produttivo, monumentalità scenografica, narrativa magniloquente, torbido erotismo, colonna sonora ipertrofica), decidendo – ciascuno per proprio conto e in direzioni contrastanti – di forzarne fin dove possibile i confini: Spartacus soffre e vive del contrasto strutturale nell'ispirazione e del conflitto con il codice. Non c’è molto Kubrick, lamentano i puristi. Certo, di Kubrick non ce n’è mai abbastanza. Ma qui è presente in dosi cospicue, seppure in bizzarra interazione con prepotenti istanze spettacolari e ideologiche.
L'ambiguità. E' notevole come il manicheismo dello sceneggiatore venga contraddetto dal regista, che nelle relazioni fra i personaggi valorizza gli elementi di conflitto, di doppiezza, di sadismo, mentre la polemica politica spazza via la cartapesta del mito di ROMA e mostra i potenti non come pazzi e decadenti fannulloni (modello aureo, il Nerone di Quo Vadis?) ma quali astuti, cinici calcolatori che fanno il doppio gioco con gli sbandierati ideali e con le vite dei sudditi. Il danzante gioco delle parti di Crasso e Gracco, rivali in contesa ai cui occhi la rivolta è solo l'episodio di uno scenario più vasto e dalla posta molto più alta, ricorda le schermaglie di Broulard e Mireau sulla pelle dei soldati in Orizzonti di Gloria; non è questa l’unica similitudine con un film stilisticamente più compatto ma tematicamente contiguo.
L'opposizione. Molto kubrickiana è la sequenza che precede lo scontro finale, perché visualizza – in modo più asciutto di quanto sarebbe riuscito 40 anni dopo a Scott nel Gladiatore – l'opposizione tra la fredda, organizzatissima, geometrica potenza distruttrice dei Romani e l'anarchica e generosa pulsione di libertà dei barbari. La diversità dei due mondi è resa anche cromaticamente, grazie a una complementarietà che concentra i toni algidi e contrastati sui Romani. Analogo rapporto lega (come in Orizzonti) l'angolatura delle inquadrature: orizzontali se si dà la parola ai ribelli, incombenti se sono di scena i potenti.
Il doppio. Il restauro del 1991 ha reintegrato una scena a suo tempo pessimamente concepita per aggirare, senza peraltro riuscirvi, la censura: un verboso e piuttosto risibile tentativo di seduzione condotto da Crasso verso Antonino. Il suo valore non sta nel rendere esplicita l’attrazione già illustrata dagli sguardi rivolti da Olivier a Curtis, ma nel rafforzare la specularità di Crasso e Spartaco, che non solo guidano le schiere contrapposte, ma amano la stessa donna e lo stesso uomo. L'oscuro timore di Crasso, di trovarsi di fronte come nemico il proprio doppio (di cui vuole ma non riesce a ricordare i tratti), affonda le radici in profonde ossessioni identitarie, sempre presenti in Kubrick e legate a una voracità erotica che non dà tregua, a sua volta fungibile con un'ansia inesausta di dominio (il desiderio di Varinia e la brama di potere si esprimono nelle stesse forme) e distruzione.
La concezione della Storia. L'ottimismo volontarista di Trumbo viene smentito anche nella scena finale, estorta al riluttante sceneggiatore che avrebbe preferito una morte in battaglia e una dimensione epica e corale: il fallimento della prospettiva rivoluzionaria è il medesimo del messaggio cristiano. Dopo 45 anni, ancora oggi il carrello a precedere – cifra ricorrente in Kubrick – che ci inchioda alla croce insieme a Spartaco e ai suoi ideali di libertà e giustizia possiede una forza insostenibile. Ma c'è un altro momento che è insieme visione del mondo e atto d'accusa: durante il combattimento gladiatorio, Draba viene inquadrato in soggettiva dal palco dei patrizi, degli spettatori che si divertono alla morte altrui senza correre rischi, e lancia il suo tridente contro di loro; contro di noi, che al sicuro assistiamo alla sofferenza e alla morte degli altri, alla ferocia e all'iniquità, noi che siamo indifferenti e ci crediamo nobili.
Gli Universal Studios imposero alla star e produttore esecutivo Kirk Douglas il regista Anthony Mann, che l’attore riuscì infine a far licenziare, chiamando alla regia il giovane e promettente regista del Bronx che lo aveva diretto in Orizzonti di Gloria: Stanley Kubrick. Mann girò per tre settimane ma nel montaggio finale rimase solo la scena in cui Spartacus viene presentato nella cava. Per la prima e unica volta non supportato dal lungo lavoro di pre-produzione che contraddistingue le sue opere, Kubrick riuscì comunque a imporsi, combattendo con i denti contro maestranze che lo guardavano con sospetto e contro le ingerenze di interpreti dalla personalità forte: puntò maggiormente sul disegno dei caratteri, girò molte inquadrature per ogni scena e con la musica sul set, prescrisse il realismo brutale della guerra nell’impressionante scena con i cadaveri degli schiavi ed ebbe il controllo sul montaggio che durò per mesi. L’unica cosa di cui Kubrick s’è sempre rammaricato, è di non essere riuscito a intervenire maggiormente sulla sceneggiatura, scritta in clandestinità dall’esiliato (per le Liste Nere) Dalton Trumbo a partire dal best-seller (1952) di Howard Fast, poi riconosciuta alla luce del Sole grazie a Douglas. Oltremodo lunga e con tratti sfilacciati (soprattutto nella seconda parte), l’opera contiene però pagine potenti, epiche ed emozionanti (la battaglia fra Crasso e i ribelli, girata a Madrid con ottomila soldati spagnoli) e, se non altro, insegnò a Kubrick a stare alla larga da Hollywood per avere il controllo totale sulle proprie visioni. Vinse quattro Oscar: per la prova di Peter Ustinov, le scenografie, i costumi e la fotografia. Menzione speciale per Saul Bass, che non si limitò a disegnare i titoli di testa ma anche lo storyboard della rivolta e della battaglia finale, inoltre si occupò delle scenografie della scuola dei gladiatori e delle location negli Stati Uniti.