Drammatico, Sala

SPACCAPIETRE

TRAMA

Dopo un grave incidente sul lavoro Giuseppe è disoccupato. Suo figlio Antò sogna di fare l’archeologo e pensa che l’occhio vitreo del padre sia il segno di un superpotere. Sono rimasti soli da quando Angela, madre e moglie adorata, è morta per un malore mentre era al lavoro nei campi. Senza più una casa, Giuseppe è costretto a chiedere lavoro e asilo in una tendopoli insieme ad altri braccianti stagionali.

RECENSIONI

TANATOLOGIA DEL BRACCIANTE


I fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio partono dall’installazione Tanatologia, 14 maggio 1958 sulla scomparsa della nonna avvenuta nei campi. La mescolano alla cronaca, alla storia di Paola Clemente, bracciante morta di fatica nel 2015. È un segno: una creazione artistica, seppure derivante dal reale, si intreccia a un fatto dell’oggi, a una tragedia contemporanea. La finzione sposa il vero. Perché il cinema sul lavoro soffre di un equivoco: che il realismo sia l’unica ipotesi. Ce ne sono tante altre. Come la tanatologia: tutto sommato anche Spaccapietre è uno studio della morte, una possibile illustrazione di come si muore. Ed è un racconto che, come tale, passa dall’esercizio di una materia narrativa. Dopo il documentario I ricordi del fiume, sulla baraccopoli Platz di Torino, a un passo dallo smantellamento, un’opera che nei suoi picchi era degna di Wang Bing, i registi tornano quindi alla “pura” finzione. Cercare il realismo è una falsa pista. Ecco che alcune tracce, da subito, lasciano la zona della plausibilità e vanno in un’altra direzione: per primo l’occhio cieco di Giuseppe (un magnifico Salvatore Esposito), che gli attribuisce un carattere grafico minaccioso, come fosse un pirata o il cattivo di una fiaba. Ma l’immagine gioca di ossimoro: tanto la sua pesante fisicità è sfibrata e mostruosa, quanto dolce il carattere, innamorato del figlio e disposto al sacrificio.

La cecità introduce anche un discorso ottico. Cosa dovrà vedere Giuseppe? Cosa si troverà costretto ad osservare, dunque comprendere? La discesa all’inferno del caporalato in cui, come Tiresia, proprio attraverso la parzialità della vista potrà vedere davvero e giungere a una nuova consapevolezza. Spesso ad aiutarlo a guardare è proprio il figlio che lo “cura”, che si propone come taumaturgo di quell’occhio magico. E anche lo sfruttamento avviene sul piano ottico: i padroni guardano i lavoratori nei campi, incitandoli ad andare più veloci, e soprattutto il caporale interpretato da Vito Signorile guarda Rosa, in una sequenza teoricamente pleonastica nell’economia drammatica del racconto. Perché restare a guardare una lavoratrice nuda che ha già svolto il suo compito? Perché è quella la più alta forma di sfruttamento: ancora una volta, ad ogni latitudine, i più deboli vengono abusati attraverso lo sguardo (il venezuelano Lorenzo Vigas vinse un sottovalutato Leone d’oro con Ti guardo, appunto). C’è poi un terzo occhio che dialoga con quello di Giuseppe e decide di risarcirlo: è la cinepresa dei fratelli De Serio e la loro scelta di dove posizionarla. Nel movimento di discesa del protagonista (come Enea va nell’Ade, dicono i fratelli) lo sguardo produce infatti uno slittamento: dalla descrizione realistica del lavoro sfiancante e della fatica si passa al territorio metaforico del noir, l’affresco sociale lascia spazio al ritmo nervoso e concitato che innesca la preparazione di un’esplosione. In altre parole nella seconda parte il film cambia genere, aggirando così il rischio del calvario cristologico del protagonista attraverso un’uscita dal reale: ed è proprio questione di sguardo.

La figura dello spaccapietre, che intitola il film, impone il confronto con un mondo antico, con un contesto atavico in cui, letteralmente, si moriva di lavoro: guardarsi allo specchio del passato rivela che quel contesto è anche oggi, ha mutato forma ma non sostanza. Ecco perché Giuseppe non viene chiamato semplicemente bracciante e perché il figlio Antò, introiettata la storia di famiglia, afferma candidamente: “Sono figlio dello spaccapietre”. Il problema è semantico: se lo sfruttamento attuale fa rima con quello, sembrano dire i registi, perché chiamare costoro lavoratori? Continuiamo a chiamarli spaccapietre. Emerge così la mitologia contadina di un vecchio Paese che si riflette nel presente con i suoi rimandi interni, fra tutti Rosa incarnata nell’attrice/autrice teatrale Licia Lanera che è la deformazione della mondina, quella figura disseminata nel cinema italiano del secondo dopoguerra (naturalmente Silvana Mangano in Riso amaro). Non a caso il piccolo Antò dichiara che da grande vuole fare l’archeologo, ci sta dando un indizio: perché qui anche di archeologia si tratta, qui si scava per riscoprire un’Italia sepolta che viene evocata e sovrapposta a quella odierna per verificare che, “miracolosamente”, le due versioni coincidono.

In tale contesto, come detto, squisitamente metaforico, Giuseppe fa una promessa ad Antò: la mamma tornerà dalla morte. L’uomo lo afferma non solo per confortare il bambino davanti al lutto, ma lo fa con intima convinzione, con esattezza quasi scientifica, tanto che il figlio stacca la foto della madre dalla tomba per portarla con sé nell’attesa. È mai possibile? Nell’ennesima smentita del verosimile il racconto prende una curva precisa e si configura alla stregua di un altro titolo chiave sul lavoro di questi anni: Due giorni, una notte di Jean-Pierre e Luc Dardenne (fratelli, ancora). Proprio così: incidere il contesto realistico per prepararne l’uscita è la strategia comune dei due film. Giuseppe che compie la strage finale ricorda il gesto di Marion Cotillard che rifiuta paradossalmente il posto di lavoro: se Sandra sceglie un atto etico, spaccando il ricatto del nostro tempo, Giuseppe esegue un gesto criminale, dimostrando qual è l’approdo tragico a cui la condizione conduce. Ma, ecco il punto, siamo già lontani dal realismo. Lo dimostra proprio la sequenza della strage che, con un’estrema frammentazione del montaggio, ripete più volte la stessa inquadratura. Non c’è più niente di vero. L’immagine di Sandra/Cotillard che cammina per la strada è l’equivalente della visione finale, che viene introdotta attraverso l’uso del fuori campo: per un attimo la compagna di corsa di Antò esce dal campo, estromessa dall’inquadratura, così la madre può davvero tornare. La fuga simbolica – potenzialmente infinita – che chiude Spaccapietre si permette di insinuare una tenue speranza, il dubbio che dal dramma del caporalato forse si può ancora scappare. Che c’è di male nel lasciare uno spiraglio? Niente, soprattutto se lo si fa frequentando le possibilità dell’immagine.