
TRAMA
Billy Hope, campione imbattuto dei pesi medio-massimi, è un animale da combattimento che tiene poco conto delle conseguenze dei suoi incontri. Dopo l’ennesima vittoria, promette alla moglie Maureen di ritirarsi e di pensare alla famiglia. L’insistenza di Miguel Escobar, stella nascente del pugilato che vuole a tutti i costi un match per il titolo, culminerà in un tragico evento. A seguito di una rissa tra i due rivali, infatti, un colpo vagante ucciderà Maureen e porterà Billy, rimasto solo con la figlia, in un baratro da cui si dovrà rialzare.
RECENSIONI
Billy Hope sa fare solo una cosa: boxare.
Di sicuro è un incassatore nato, se ne infischia della difesa, tanto al tappeto ci va sempre l’avversario. Il comportamento sul ring però, come la tradizione ci insegna, è un palese riflesso di quello che si ha nella vita e pertanto l’atteggiamento incontrollato del campione nasconde, in realtà, la nemesi del suo mondo privato. Fuqua ci mostra tale dicotomia fin dall’intro. Durante il bendaggio delle mani, il cambio di fuoco dal pugno in primo piano al volto mette subito in chiaro il conflitto del protagonista, ulteriormente sottolineato dalla colonna sonora che diventa intradiegetica (Beasts di Rob Bailey & The Hustle Standard). Nell’apparente silenzio della preparazione, con il cazzeggio della crew del pugile in sottofondo, Billy è isolato nell’ascolto della musica, preparando quella bestia violenta e irascibile che lo porterà per l’ennesima volta a difendere il titolo. E’ questo stesso punto di forza che lo condannerà alla più classica parabola di caduta e redenzione. La morte della moglie infatti tipico personaggio sutteriano di donna-madre dalla quale si dipende in tutto e per tutto, costringe Billy a rivisitare la propria condizione di bambino disadattato e immaturo, impacciato a parlare, perennemente in balia di un’emotività eccessiva e tesa a essere rassicurata. Non resta quindi che un percorso di responsabilità come uomo e soprattutto come padre. E non è un caso che un traguardo di questo tipo, vissuto nella totale precarietà sociale e ritorno alle origini, necessiti di un nuovo assetto per combattere (il mondo). L’incontro eastwoodiano con il coach “Tick” insegna a Billy l’arte del difendersi (Southpaw come guardia mancina) che, ovviamente, va di pari passo con la disciplina dell’autocontrollo.
La scrittura tragica e sopra le righe di Sutter non poteva non essere adatta allo stile duro e molto spesso retorico di Fuqua. Pur portandosi dietro una discutibile carica drammatica, sempre al limite di quell'eccesso disdegnato da tanti, Southpaw è pieno di energia, punta a un'emotività coatta mai fine a se stessa che tiene sempre conto della sua rappresentazione. L'indiscutibile cardine dell'opera è l'esagitata caratterizzazione di Jake Gyllenhaal, anti-eroe fragile e fratturato, con un corpo tanto scolpito quanto martoriato per i segni della carriera, goffo nella postura, quasi incapace a seguire un filo logico nei suoi discorsi. Fuqua radicalizza la messa in scena del corpo attraverso la luce, con vaghe atmosfere noir che richiamano opere precedenti come Training Day e Brooklyn Finest, esaltando le membra con bianchi sparati opposti a uno spazio interiore perlopiù immerso nel buio. Sempre giocata sui contrasti, la fotografia definisce la condizione del personaggio non solo sul lato prettamente umano, ma anche su quello pubblico nella spettacolarizzazione dello show business, seguendo una traiettoria che, dall'illuminare in pieno Billy nella sua maschera sul ring, fatta di sangue e smorfie, sprofonda gradualmente nell'oscurità. La speranza futura (Hope per l'appunto) va di pari passo con un ritorno alla luce che, dall'investire il corpo del pugile durante l'allenamento per l'incontro finale, giunge ad abbracciare una famiglia finalmente riunita.
I'm a guy desperately in need of buffers. I have big feelings, big reactions, big emotions. All the things that serve me as an artist, but challenge me as a socially-responsible human being. (Kurt Sutter)

Ennesimo ritratto di combattente che si scontra con il Sistema e il proprio codice morale nella filmografia di Antoine Fuqua: conferma le doti grammaticali, nelle coordinate emotive, di un regista che, per altro, si affida molto agli stereotipi di genere. Il film pugilistico è un sottogenere con codici stringenti che Fuqua non scansa, costruendo a regola d’arte le premesse per infuocare gli animi, passare dalle stelle alle stalle, pennellare cattivi che meritano la rivalsa e l’appello ad una ragione più alta (l’amore della figlia), oltre fama e denaro, per ottenere rivincita e vendetta. Grazie anche alla bravura e al magnetismo di un attore come Jake Gyllenhaal, il lavoro ai fianchi sull’impianto emotivo funziona e porta alle lacrime l’ansia di riscatto, per quanto Fuqua perda l’occasione di uno studio psicologico più approfondito, in cui collegare la natura assassina del pugile sul ring con quella del “civile” nella vita di tutti i giorni, che dovrebbe seguire logiche differenti: nella sceneggiatura (di Kurt Sutter, autore/creatore di serial “tosti” come The Shield e Sons of Anarchy), la morale avverte che rispondere alle provocazioni porta guai, ma la drammaturgia si ferma ai fatti e preferisce la scorciatoia di Rocky che va dal guru di Karate Kid per imparare a gestire rabbia e violenza. Pensato come seguito di 8 Mile (Eminem offre le canzoni “Phenomenal” e “Kings never die”), l’iter classico del pugile cinematografico ha comunque qualche variante curiosa. Il titolo indica il pugilato di un mancino e si riferisce anche al colpo decisivo di Billy Hope nel finale.
