TRAMA
La lotta per la sopravvivenza nell’Afghanistan dilaniato dalle guerre si converte qui in fosca parabola, ma a misura di bambino: tra le povere abitazioni ricavate ai piedi delle grotte che, prima della follia Talebana, ospitavano i celebri Buddha di Bamiyan, la piccola Bakhtay tenta in ogni modo di procurarsi il necessario per andare a scuola, ma trova sul suo percorso innumerevoli ostacoli. Nella classe riservata ai maschi non viene accettata, così è costretta a fare più strada, incontrando persino una banda di ragazzini che nel giocare alla guerra si diverte a fare truci minacce, come quella di lapidare la bambina in quanto infedele!
RECENSIONI
All’ombra di un Buddha disintegrato
Per quanto la famiglia Makhmalbaf sembri fare a gara con la famiglia Coppola per essere quella che può vantare più registi nel proprio clan, c’è da dire che in entrambi i casi continuano a susseguirsi esordi di un certo valore. I Makhmalbaf, in particolare, finiscono per avere ruoli di responsabilità sul set in età davvero precoce. È ora il turno di Hana, classe 1988, che da diversi anni studia cinema nella scuola di famiglia, la Makhmalbaf Film School, dove tra l’altro ha già realizzato un documentario (Joy of Madness, nel 2003) con la partecipazione della sorella Samira. Nello stesso anno la giovanissima Hana pubblicò anche un libro di poesie, Visa for One Moment, ma è con questo Buddha Collapsed out of Shame che è avvenuto il suo esordio nel lungometraggio di finzione. Quanto Hana Makhmalbaf sia stata guidata, consigliata, finanche condizionata dall’esperienza del padre Mohsen e dalla sorella Samira non ci è dato saperlo, o comunque non abbiamo voluto approfondire, mentre sta di fatto che il suo film è un concentrato di felici intuizioni sulla condizione infantile vissuta in situazioni estreme, talvolta ostili, e comunque poco consone ad una crescita equilibrata. Quella realtà afgana, che ha già ispirato Viaggio a Kandahar di Mohsen Makhmalbaf e Alle cinque della sera di Samira Makhmalbaf, torna ad essere il palcoscenico di storie paradossali; ma qui più che altrove è la rappresentazione di un’infanzia negata a recuperare lo schema del pedinamento di un personaggio, che anche nel cinema di Kiarostami e Panahi abbiamo incontrato diverse volte, rapportato nella circostanza a particolari variazioni sul tema: piccoli episodi da cui, mescolando una forma simbolica con suggestioni drammatiche, si allude costantemente ai tanti mali che hanno afflitto in tempi recenti il precario assetto sociale dell’Afghanistan, paese sconvolto dalla guerra e dall’intolleranza religiosa. Gli incontri della piccola Bakhtay con il maestro che non vuole insegnarle nulla, perché non accetta bambine in una classe di maschi, oppure con il gruppo di ragazzini che giocano alla guerra, minacciando di eliminare tutti gli infedeli con armi giocattolo o mettendo in scena lapidazioni, così come il divieto di usare cosmetici infranto dalla bimba con gioiosa ingenuità, sono tutte tragicomiche parafrasi del reale in grado di lasciare il segno. E su tutto si avverte il peso di un’assenza. Quella dei Buddha di pietra fatti saltare a Bamiyan con la dinamite, per fare spazio all’ignoranza e alla paura.
Stefano Coccia