TRAMA
In una Hanoi umida e afosa, tre sorelle si riuniscono nel ristorante della primogenita in occasione del primo anniversario della morte della madre: Suong, sposata con un fotografo serioso, Khanh maritata con uno scrittore in crisi di ispirazione, Lien alla ricerca di un uomo che le ricordi il più possibile il fratello Hui, per il quale prova un’ambigua ma controllata attrazione: tutte apparentemente soddisfatte della loro vita affettiva, ma la realtà è diversa da come appare…
RECENSIONI
Avevamo lasciato Tran Anh Hung cinque anni or sono, sulla scia delle discussioni scaturite dal controverso "Cyclo", Leone d'Oro alla Mostra di Venezia di quell'anno, un film disperato, eccessivo nella forma e nei contenuti, dalla scrittura a volte approssimativa ma straripante di sequenze di indimenticabile forza espressiva. Ed ecco che in punta di piedi torna il regista vietnamita con un lavoro presentato a Cannes 2000 che più distante non potrebbe essere da Cyclo, imploso e "classico" quanto esplosivo e delirante è stato il precedente, più vicino nei toni bassi al "Profumo della Papaya Verde", suo film d'esordio: ritmo dilatato, piani sequenza lentissimi su carrelli orizzontali come in un film del nord o dell'est europeo, primi piani insistiti a scavare nei pensieri più sommersi dei personaggi, ambienti dai colori forti e accesi, scene ed inquadrature barocche segno di indiscutibile talento figurativo e di magistrale padronanza nell'uso della luce. La storia è quanto di più classico si possa raccontare tanto che è sufficiente la tipologia del nucleo familiare (tre sorelle) per dedurre la matrice cechoviana del dramma: piccoli gesti apparentemente irrilevanti inseriti in contesti di assoluta routine: pranzi, confidenze, consigli, discorsi di lavoro, faticosi risvegli; insomma un "mondo perfetto" dove sembrano vivere in armonia e serenità le tre sorelle... finché rivelazioni e sospetti non cominciano a minare le loro certezze o a costringerle ad accettare verità rimosse. E, proprio come in Cechov, il dramma sarà lo spazio di un breve chiarimento, o un pianto liberatorio, dopodiché "si dovrà pur continuare a vivere...". Dunque è un piccolo dramma intimista il mezzo con cui Tran Anh Hung decide di ripresentarsi all'esigente platea assetata di cinematografie alternative. Eppure, nonostante il notevole successo di critica (e di pubblico, almeno a constatare il pienone che sta realizzando nei cinema romani), "A la verticale de l'eté" produce alla fine della proiezione una sensazione di insoddisfazione, di frigidezza: il film emoziona solo a tratti e i motivi, a mio avviso, sono di ordine sia formale che di sceneggiatura. Il regista vietnamita sembra più interessato a portare avanti il suo personale percorso estetico che a sviluppare credibili dinamiche drammatiche. L'indubbia splendida resa figurativa risulta alla prova dei fatti troppo fredda nella sua elegante perfezione, troppo di maniera (anche se alla "sua" maniera): le bellissime inquadrature, gli armonici quadri coreografici appaiono troppo spesso artificiosi, troppo stantii, con le insistite ceste di frutta sui tavoli, illuminate seicentescamente sempre allo stesso modo; o al ripetitivo utilizzo di una tenda che copre e non copre, un po' impallamento, un po' fuori campo, molto suggestiva ma deja vu, dal momento che è stato il mezzo stilistico predominante usato per spiare pudicamente i movimenti della protagonista del "Profumo della Papaja verde". Niente di grave se si trattasse solo di auto-calligrafismo stilistico. Ma il vero problema è che la scrittura è assolutamente indecifrabile alternando momenti di finissima acuta raffinatezza a sconcertanti "cadute" logiche . L'attenzione così maniacale per il dettaglio pittorico, per una smorfia catturata, per un gesto allusivo, per un improvviso malinconico silenzio è sintetizzata da quella che può essere considerata la scena più rappresentativa del film: le tre donne ricordano come il padre sia vissuto esattamente lo stesso tempo della madre, come a sottolineare la perfezione del loro matrimonio e... se c'è stato, come c'è stato, un breve tradimento da parte della madre, è stato del tutto insignificante. Quella meravigliosa riflessione intimista a tre voci costituirà proletticamente l'inizio della messa in discussione di quel matrimonio, simbolicamente "il" matrimonio, e di riflesso il privato tarlo del tradimento, rimosso o temuto, inizierà ad intaccare la spensieratezza delle donne, fino a portarle a fare chiarezza all'interno di se stesse e della coppia. Come accennato, questa scena è un fiore nel deserto dell'approssimazione: buchi narrativi grossolani e raccordi dilettanteschi sono disseminati lungo tutta la narrazione: le due vite di Lien (interpretata dalla meravigliosa attrice feticcio Tran Nu Yen Khe, che sta al nostro come Gong Li a Zhang Yimou...), quella con l'amante di un giorno e quella con il fratello, sono talmente slegate e disgiunte che si ha l'impressione si tratti di due persone diverse; la primogenita Suong scoppia a piangere dopo la rivelazione del marito di avere un'altra famiglia, mentre poco dopo ammette di sapere già tutto; la scoperta del bigliettino da parte di Khanh è troppo pretestuosa e poco credibile per costituire un climax che non rasenti il ridicolo; il fratello Hui, personaggio centrale nel rapporto con Lien, risulta del tutto avulso dal quadro familiare, escluso dal "cambiamento" che coinvolge gli altri membri, praticamente assente.
Ma nonostante tutte le deficienze, il segno del "Talento di Mr. Tran" si palesa quando il regista libera i personaggi dalle rigidità delle situazioni drammatiche e se stesso dalle sue manie estetizzanti e ci delizia con sprazzi entusiasmanti come i periodici quadretti di Lien e Hai che si svegliano la mattina accaldati dall'afa opprimente: movimenti coreografici incantevoli delimitati in uno spazio volutamente bidimensionale, ogni volta leggermente diversi, con in sottofondo una canzone di Lou Reed che accompagna ritmicamente i lenti, intorpiditi movimenti dei personaggi. Deve avere un'abilità fuori del comune Tran nella scelta delle musiche che devono accompagnare alcune sequenze: non lo ringrazieremo mai abbastanza per averci folgorato con la sconvolgente Creep degli allora sconosciuti Radiohead. Il realismo piatto dell’interpretazione di Accorsi stona con le intenzioni del film, portando un’inopportuna ventata mucciniana (di bacio in bacio). Discreti gli altri.
