Drammatico, Sala

SOLE CUORE AMORE

TRAMA

Eli ha quattro figli, un marito disoccupato e un lavoro lontano da casa. Vale è single e lavora nelle discoteche come danzatrice e performer. Provano a cavarsela aiutandosi reciprocamente, ma esistere non è vivere.

RECENSIONI

Le “Tre parole” cantate da Valeria Rossi, e diventate tormentone nell’estate del 2001, diventano il titolo del film di Daniele Vicari. La scelta è volutamente stridente perché l’amore sopravvive nonostante tutto, il cuore batte forte ma fatica a tenere il ritmo e di sole ce n’è davvero poco. L’inno alla leggerezza, oltre a depistare lo spettatore, suggella un film dove di leggerezza ce n’è davvero poca e tutto è costruito per scuotere lo spettatore da un presunto torpore e indurlo all’indignazione. Quella di Eli è infatti una vera e propria Via Crucis quotidiana che comincia con la sveglia alle 4.30, prosegue con due ore sui mezzi per raggiungere il centro di Roma, si sviluppa nel lavoro da barista per 800 euro al mese in nero, continua con altre due ore per ritornare a casa in provincia e si conclude a tarda sera nella cucina di casa. Ad aspettarla un marito disoccupato e quattro figli da mettere a letto. Come se non bastasse ci si mette pure la salute a compromettere ogni possibile, già molto remota, ipotesi di serenità. Alter ego della protagonista l’amica vicina di casa che ha rinunciato a imbrigliarsi per seguire l’istinto e la vocazione artistica. Entrambe, comunque, nel guado di una vita con più vuoti che pieni e in grande difficoltà nell’aderire al proprio sentire. Daniele Vicari è da sempre fautore di un cinema del reale, dove i confini tra fiction e documentario sono molto labili. Il suo tentativo di raccontare le persone e dare voce a chi sul grande schermo difficilmente ce l’ha è lodevole, soprattutto per la capacità di connotare in modo credibile l’ambiente in cui si contestualizza la vicenda. Ciò che finisce per inquinare le buone intenzioni è però la scelta, dominante, di veicolare un punto di vista attraverso una situazione estrema. Un caso fatto di superlativi che producono esiti sensazionalistici. La protagonista sembra uscire da un film neorealista e la brava Isabella Ragonese prova a smussarne la schematicità, ma è troppo grande il contrasto tra la forzata positività del personaggio e la negatività che la circonda. D’altro canto l’amica di pianerottolo non ha sufficiente carburante narrativo per dare supporto alla vicenda e i suoi crucci e la sua sensibilità sembrano provenire da un altro film. A pesare su tutto e tutti la tesi da supportare che vorrebbe mostrare il disumano che silenziosamente si fa strada nel quotidiano con la connivenza di chi, nell’indifferenza, quel sistema lo alimenta. Il problema è che si sottovaluta lo spettatore e sono più le risposte e le certezze delle domande e dei dubbi. Per cui della protagonista, di ciò che pensa, dei suoi gusti, di tutto ciò che la rende unica e insostituibile, finiamo per non sapere molto. Diventa un simbolo, un’icona del disagio, una martire, e come tale portatrice di un punto di vista inevitabilmente condivisibile, ma proprio per questo poco stimolante per un confronto davvero significativo.