TRAMA
In un piccolo villaggio dell’Anatolia l’undicenne Aslan incontra il cane da combattimento Sivas.
RECENSIONI
Il cinema turco oggi non è solo Ceylan. Basti vedere, a titolo di esempio, la graduale elaborazione del lutto in Muffa di Ali Aydin (Venezia 2013) o la doppiezza dostoevskijana nello splendido I’m not him di Tayfun Pirselimoglu (Roma 2013) per trovare personali drammaturgie e discorsi visivi, tutti innestati - più o meno - sulla messa in narrativa dei caratteri (umani, sociali, politici) di un Paese. In Sivas l’esordiente Kaan Mujdeci inscena un bimbo che adotta un cane omonimo, sfinito dopo un combattimento, e ne cura le ferite ma solo per reinserirlo nel circuito delle lotte. Nella società della violenza, dove questa è fondante e intrinseca allo scenario, non si può fare altro: come il giovane Aslan ha introiettato la lingua volgare dei grandi, e si esprime attraverso la medesima ostentazione di virilità (litiga selvaggiamente col fratello e si spoglia, come un uomo vero), così dichiara “non lo farò più combattere” ma è condannato dal contesto. La lotta deve continuare.
Il film è soprattutto una questione di sguardo. Nella metafora complessiva, la lotta canina riflesso di quella umana e indizio ancestrale in un centro locale/globale dellAnatolia, si sviluppa unevoluzione dei punti di visione: allinizio la camera aderisce allo sguardo di Aslan, posizionandosi alle sue spalle, poi gradualmente lo supera cogliendo un campo più ampio, aprendosi allintorno. Nellincipit il bambino gioca a nascondino ma, dopo la conta, si vede abbandonato dai coetanei trovandosi sperso nel paesaggio; allo stesso tempo viene frustrato nella divisione dei ruoli in Biancaneve (simbolicamente è soltanto un nano), malgrado il maestro lo inviti ad accettare una posizione di minorità. La situazione si riscatta proprio nellincontro con Sivas: Aslan lo guarda dallalto, domina lanimale e quindi lambiente, ladozione è una rivendicazione di potere.
Nel primo fight club locchio si fa crudo, indugia realisticamente sui combattimenti, ma sempre con controllo e misura, insieme a un senso di pietas che arretra e omette i punti più insopportabili. Alla fine dellincontro con Sivas, la camera slitta e concede un primo piano allanimale, equiparando il cane al bambino, racchiudendo entrambi nellomologo zoom del viso/muso con la stessa dignità, come soggetti dellazione (e della storia) che osservano lesterno. La dialettica umano/randagio si fa dunque complessa: nei combattimenti, in corso di racconto, linquadratura passa dagli animali agli uomini che guardano e fanno il tifo, progressivamente tutta lattenzione viene riservata agli spettatori degli scontri. A suggerire che chi guarda è responsabile delloggetto, lo stesso osservare provoca il fatto, in una deriva voyeuristica tragicamente umana: se non ci fosse luomo che guarda, non ci sarebbe la lotta tra cani. Forse per questo la chiusura è riservata allo sguardo del cane ferito, in cui è iscritto il peso di una condanna, uno sguardo congelato e quasi rassegnato perché ormai consapevole di una condizione.
