Drammatico

SIVAS

Titolo OriginaleSivas
NazioneTurchia/Germania
Anno Produzione2014
Durata97’
Sceneggiatura

TRAMA

In un piccolo villaggio dell’Anatolia l’undicenne Aslan incontra il cane da combattimento Sivas.

RECENSIONI


Il cinema turco oggi non è solo Ceylan. Basti vedere, a titolo di esempio, la graduale elaborazione del lutto in Muffa di Ali Aydin (Venezia 2013) o la doppiezza dostoevskijana nello splendido I’m not him di Tayfun Pirselimoglu (Roma 2013) per trovare personali drammaturgie e discorsi visivi, tutti innestati - più o meno - sulla messa in narrativa dei caratteri (umani, sociali, politici) di un Paese. In Sivas l’esordiente Kaan Mujdeci inscena un bimbo che adotta un cane omonimo, sfinito dopo un combattimento, e ne cura le ferite ma solo per reinserirlo nel circuito delle lotte. Nella società della violenza, dove questa è fondante e intrinseca allo scenario, non si può fare altro: come il giovane Aslan ha introiettato la lingua volgare dei grandi, e si esprime attraverso la medesima ostentazione di virilità (litiga selvaggiamente col fratello e si spoglia, come un uomo vero), così dichiara “non lo farò più combattere” ma è condannato dal contesto. La lotta deve continuare.


Il film è soprattutto una questione di sguardo. Nella metafora complessiva, la lotta canina riflesso di quella umana e indizio ancestrale in un centro locale/globale dell’Anatolia, si sviluppa un’evoluzione dei punti di visione: all’inizio la camera aderisce allo sguardo di Aslan, posizionandosi alle sue spalle, poi gradualmente lo “supera” cogliendo un campo più ampio, aprendosi all’intorno. Nell’incipit il bambino gioca a nascondino ma, dopo la conta, si vede abbandonato dai coetanei trovandosi “sperso” nel paesaggio; allo stesso tempo viene frustrato nella divisione dei ruoli in Biancaneve (simbolicamente è soltanto un nano), malgrado il maestro lo inviti ad accettare una posizione di minorità. La situazione si riscatta proprio nell’incontro con Sivas: Aslan lo guarda dall’alto, “domina” l’animale e quindi l’ambiente, l’adozione è una rivendicazione di potere.


Nel primo fight club l’occhio si fa crudo, indugia realisticamente sui combattimenti, ma sempre con controllo e misura, insieme a un senso di pietas che “arretra” e omette i punti più insopportabili. Alla fine dell’incontro con Sivas, la camera slitta e concede un primo piano all’animale, equiparando il cane al bambino, racchiudendo entrambi nell’omologo zoom del viso/muso con la stessa dignità, come soggetti dell’azione (e della storia) che osservano l’esterno. La dialettica umano/randagio si fa dunque complessa: nei combattimenti, in corso di racconto, l’inquadratura passa dagli animali agli uomini che guardano e fanno il tifo, progressivamente tutta l’attenzione viene riservata agli spettatori degli scontri. A suggerire che chi guarda è responsabile dell’oggetto, lo stesso osservare provoca il fatto, in una deriva voyeuristica tragicamente umana: se non ci fosse l’uomo che guarda, non ci sarebbe la lotta tra cani. Forse per questo la chiusura è riservata allo sguardo del cane ferito, in cui è iscritto il peso di una condanna, uno sguardo congelato e quasi rassegnato perché ormai consapevole di una condizione.