TRAMA
Il nipote di Re Artù intraprende un’audace ricerca per affrontare il Cavaliere Verde, un misterioso gigante che appare a Camelot. Rischiando la testa, si imbarca in un’avventura epica per mettersi alla prova con la sua famiglia e la sua corte.
RECENSIONI
Può sembrare una excusatio non petita, ma non ho trovato per nulla semplice inquadrare questo lavoro di David Lowery, che in apparenza potrebbe addirittura sembrare il più facilmente leggibile, quasi un esercizio di stile sul tema, a lui caro, dello scorrere del tempo. Un tempo sospeso, interrotto, quello di Storia di un fantasma, un tempo ingrato, inarrestabile, quello di The Old Man & the Gun, che denuncia sin dal titolo il crepuscolo degli dei (e di un divo, Robert Redford, criminale in fuga come nella tradizione del vecchio West).
Per certo conosciamo l’origine letteraria delle storia di Sir Gawain, ovvero un poema allitterativo, scritto intorno al 1400; autore ignoto, di probabile origine in una zona che si situa tra il Cheshire, lo Staffordshire e il Derbyshire. La cappella verde, cui si accenna come luogo del rendez vous che muove Gawain verso l’ultima tappa del suo laico calvario, sembra avere un corrispettivo fisico: la Lud’s Church, una grotta incastonata nella vegetazione, antro che, immagino, potesse incutere il senso di devozione – chiesa in senso lato, quindi – che si avverte di fronte a qualcosa di misterioso, forse magico (si veda l’illuminante prefazione di Simon Armitage alla versione del poema da lui stesso adattata, in Sir Gawain e il cavaliere verde, Guanda, Milano, 2011).
La vicenda narrata è riassumibile, anche senza voler dire troppo di intreccio ed epilogo, in poche righe: Gawain, nipote del prode Artù, taglia la testa a un cavaliere, il Cavaliere Verde, che aveva sfidato il re a colpirlo, promettendo di non opporre resistenza. Ciò che nessuno, a Camelot, si aspettava è che il cavaliere potesse riprendere la testa mozzata da terra per piazzarsela di nuovo sul collo. Ebbene, la sfida è stata accettata e l’uomo onorevole, o presunto tale, deve risponderne, tenendo fede al proprio rango: un anno dopo, il giorno di Natale, Gawain dovrà recarsi presso la cappella verde e attendere la risposta del cavaliere arboreo.
Ripudiati i fasti pagani di matrice ellenizzante, i ludi e ogni presunzione di giocare ad armi pari col divino tramite l’arte drammatica (sebbene attraverso l’uso di maschere, coturni e vari orpelli), la pars construens della letteratura teatrale medievale, quando non ispirata in modo pedissequo ai sacramenti e alle tappe della vita e della Passione di Cristo, tiene presente valori e ideali che, in maniera più o meno diretta, si riferiscono alle virtù teologali o cardinali. Siamo negli anni di Sir Gawain e il Cavaliere verde, tardo frutto del ciclo bretone, coevo – o quasi, in realtà è precedente di qualche decennio, magari anche tematicamente prodromico, dati i profondi legami alla tradizione e al folklore – a lavori come i Mistery Plays e i Morality Plays. Tra questi ultimi, in particolare The Castle of Perseverance (ca. 1425), coi suoi loci deputati (anche in Sir Gawain e il Cavaliere Verde l’azione procede attraverso una serie di mansiones, sorta di stazioni scenico-morali) e l’altisonante protagonista, Mankind (Umanità), risuona con la portata universalistica del lavoro di David Lowery. La riflessione del regista non mi pare fermarsi al cursus honorum onorifico di un tutt’altro che onorevole o coraggioso giovane rampollo.
Il Cavaliere Verde, non un essere umano, ma neppure un albero, allora un travestimento, un sortilegio, una commistione proto fantasy e horror di vari elementi simbolici, ha senz’altro legami con il green man celtico, fusione significativa dell’elemento testa e del vischio, caro ai druidi, o così pare, secondo quanto scrive Plinio il Vecchio in Naturalis Historia (XVI, 45): «I Druidi – è il nome che danno ai loro magi – non hanno nulla di più sacro del vischio e dell’albero che lo porta, purché esso sia un rovere. Il rovere è già per se stesso l’albero che scelgono per i boschi sacri, e non compiono nessuna cerimonia religiosa senza il suo fogliame [...]». Il vischio tra l’altro – il ramo d’oro – è quello indicato dalla Sibilla Cumana a Enea per affrontare la sua catabasi. Tuttavia il cavaliere non è solo un rimando poiché, se lo fosse, Sir Gawain, questo Sir Gawain, sarebbe a sua volta solo un uomo che impara, come Sigfrido, che è la percezione della paura a dare la misura del coraggio. Ritengo infatti che la simbologia che Lowery ricerca, biforcando il racconto in doppie nature umane e temporali (quasi un what if, un’ucronia onirica e didattica, sul finale), finanche cromatiche, ben presenti nelle scelte dei costumi e della fotografia, sia, nelle intenzioni, più complessa e stratificata.
«But why green?», chiede la lady. Ne nasce un breve scambio con Gawain sulla valenza, anch’essa duplice, del colore verde: il verde è il colore della terra, delle cose vive, ma anche del marcio, un elemento inestirpabile, per quanto uno si sforzi. Mentre ci si affanna a cercare il rosso – la carnalità, il sangue – arriva il verde che è ciò, afferma sempre la lady, che il desiderio si lascia dietro, sorta di stasi per l’eccitazione passionale, con la sua inevitabile finitezza.
Ho pensato a ciò che scrive, o riporta, Jung ne L’albero filosofico:
«Blasius Vigenerus (Blaise de Vigenère) (1523-1569?), il quale era influenzato dalla Cabala, parla di un caudex arboris mortis che emette una luce rossa distruttrice».
(Jung, Carl Gustav, L'albero filosofico, p.73, Bollati Boringhieri, Torino, 2021, Edizione Kindle)
Vi è dunque un’ambiguità ineludibile: il cavaliere verde pone in essere la ragione cavalleresca del taglione (avrai ciò che hai dato, però in una misura che sarà l’offeso a stabilire). D’altra parte il rosso dell’impulso risulta un es che necessita di mediazione per poter diventare una forza propulsiva e non demolitrice, o autodemolitrice. Nel rovesciamento del quadro che ritrae Gawain, all’inizio a testa in giù, come Pietro sulla croce, potrebbe dunque consistere l’evoluzione funzionale dell’infante: l’amante, la lady, la madre, figure simili, quasi tangenti, e magari quel figlio strappato dalle braccia della partoriente risulta pure una proiezione psichica del cavaliere, l’inizio di una nuova possibilità. Ovvero di un passaggio compiuto, simbolicamente parlando, tra la posizione schizo-paranoide e quella depressiva. Secondo Melanie Klein infatti il bambino, dopo circa sei mesi di vita, comincia a trattenere l’aggressività poiché ne rivolge una parte verso sé stesso. Gawain si priva infine della protezione della cintura magica, smette di giocare sporco, di aggredire e basta, di comportarsi, insomma, da bambino: accetta il senso di colpa. Tra l’altro il vischio, di cui parlavo prima e che potrebbe rimandare al significato di questo cordone ombelicale/intestino, era la pianta sacra della divinità norrena Frigg. La cintura della costellazione di Orione – in mitologia, è il cacciatore accompagnato dal cane, che qui sarebbe una volpe – viene chiamata proprio “filatoio di Frigg”. Spogliandosi del suo trucco, di una forza esterna e indotta, il cavaliere rinuncia alla paranoia collegata al dover dimostrare la propria virtus (dimostrare di essere un gran condottiero/sovrano non di rado porta alla guerra… a perdere la testa per mantenere saldo il potere) e si confronta con l’archetipo dell’Ombra.
«Nella scala affettiva, l’Anima e l’Animus stanno all’Ombra pressappoco come questa sta all’Io cosciente. A quest’ultimo sembra competere la principale tonalità affettiva: in ogni caso esso riesce, sia pure temporaneamente, e per mezzo di un non trascurabile dispendio di energia, a rimuovere l’Ombra», scrive Jung in Aion. Ricerche sul simbolismo del sé, Bollati Boringhieri, Torino, 2015)
Se sceglie quella strada, quella del divenire adulto in modo compiuto, non ha bisogno di essere un eroe che muore giovane e bello e può rileggere il mito di Elena di Troia e della sua propria esperienza – «on the siege and assault of Troy had ceased, with the city a smoke-heap of cinders and ash»: questi sono i primi versi del poema anonimo, nella versione di Armitage – in senso euripideo: «vuoi dire che abbiamo sofferto invano per una nuvola?».
Sta di fatto che, in Sir Gawain e il Cavaliere Verde, Lowery cita, omaggia, richiama, dal Kubrick di Barry Lyndon al Von Trier di Antichrist, fino a lambire, uscendo dal macrocosmo cinematografico, certa letteratura, istanze ecologiste, riflessioni critiche rispetto alla contemporaneità del “mi metto in mostra dunque sono” (Gawain diviene, grazie alla sua spavalderia, un influencer ante litteram!), disquisizioni psicanalitiche; grandi ambizioni per un risultato che mi pare interessante, in alcuni momenti molto interessante, eppure ancora piuttosto dimostrativo, con pretenziosità e ridondanze che ci dicono che il regista è bravo (o molto bravo) e poco altro. Posto che, come ci dice A Ghost Story e come ci diceva (con miglior afflato) Macbeth, la vita è il mero baluginare di una fiammella, resta comunque valida l’esortazione dei Jefferson Airplane, quando cantavano, in White Rabbit: feed your head.