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SINFONIA D’AUTUNNO

Titolo OriginaleHöstsonaten
NazioneNorvegia
Anno Produzione1977
Durata99'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Eva, moglie del pastore protestante Viktor, aiuta il marito negli affari della parrocchia e nel corso delle funzioni religiose. In casa, isolata dalla comunità, la giovane donna dedica il suo tempo alla sorella Helena immobilizzata da una grave e progressiva infermità e vive nella sensazione della presenza del figlio Eric, annegato nel fiordo vicino, il giorno in cui compiva i quattro anni. Con il consenso di Viktor, Eva invita la madre Charlotte a stare da loro per un periodo di vacanza.

RECENSIONI

"...perché tu sei riuscita ad annullare la mia voglia di vivere come io adesso sto annientando la tua."

Sinfonia d'autunno nasce con un evento, l'incontro atteso, procrastinato, inevitabile e necessario tra i due grandi omonimi del cinema svedese e mondiale: Ingmar e Ingrid, con buona approssimazione rispettivamente il più grande regista e la più grande attrice allora viventi. Il film avrebbe potuto nascere e prosperare vivendo di rendita, con un canovaccio e un'esecuzione con la mano sinistra, come spesso accade ai "film evento". Invece, ovviamente, non è questo il caso e la scelta di una Bergman già malata di cancro, non facile sul set e come sempre suprema è funzionale a un progetto. Come racconta il regista a Olivier Assayas, "si trattava del sogno di una madre e di una figlia visti attraverso tre luci differenti: la luce del giorno, della notte e quella del mattino. Il dispositivo era tutto qui. Soltanto loro due, soltanto le tre luci, nessuna spiegazione, nessuna storia. Un movimento, o piuttosto tre movimenti come in una sonata. Questo era il punto di partenza ed era un sogno. E poi, sapete come va, man mano si cambia, la prima idea, ottima, si trasforma un po' e all'improvviso si ha per le mani una storia volgare con tutte le spiegazioni, le scene...". Al di là della consueta eccessiva ferocia autocritica bergmaniana e della normalizzazione applicata al progetto radicale originale va premesso quanto sia incongruo il titolo italiano, che rimanda alla sinfonia e a molteplici voci che si fondono in un unico continuo, per un film che è appunto un dialogo di strumenti isolati. Da un punto di vista formale si tratta sicuramente di un film teatrale (in tre atti ben definiti) e di un kammerspiel, di uno film bergmaniani più austeri. Le inquadrature fisse - con la camera spesso posta fuori dal salotto a suggerire ulteriormente l'idea di un palco con quinte - la palette cromatica tenue, accesa da pochi elementi simbolici come l'iconico abito rosso, l'uso di una location molto bergmaniana, la canonica, spogliata degli elementi gotici o horror o mistici che possiede per esempio in Luci d'inverno e Fanny & Alexander per farsi interno borghese anodino: non c'è spettacolo visivo. Personaggio marginale e importantissimo, il marito dimesso e silenzioso, sempre a lato mentre infuria la battaglia femminile e intergenerazionale si discosta da un lungo lignaggio di pastori (figure paterne) tormentati o tormentatori per farsi unico essere umano semplice e affettuoso dell'ensemble e corrispettivo incarnato dello stile filmico. Tutto è affidato alle interpretazioni delle protagoniste, da cui non si deve distogliere lo sguardo, mai.

Sinfonia d'autunno è uno studio mendeliano sulla frigidità oltre che la storia di un'imboscata. All'apparenza niente lega madre e figlia. La madre Charlotte (Ingrid Bergman) è esuberante, vitale, teatrale, egocentrica, mondana. Ci tiene al namedropping di nomi di città e celebrità che dicano il suo stendersi su tutto il mondo. Calcola la propria ingente fortuna economica. È una che continua a affermarsi. La figlia Eva (Liv Ullman) invece si è ritirata nella Norvegia interna, in un luogo indefinito fuori dal mondo, è servile e patologicamente insicura, si compiace di sventure e infermità altrui che le permettono di assumere un ruolo nei confronti di figure inermi. L'osservatore semplice, legato a schemi interpretativi paracattolici, individua immediatamente nella mamma il mostro e nella figlia la vittima. Ovviamente le cose sono infinitamente più aggrovigliate. Il movimento turbinoso sulla superficie del mondo da parte di Charlotte è anche una fuga perpetua - accendendo una sigaretta, acquistando un abito haute couture oppure volando in Africa - da tutto ciò che ritiene sgradevole e indegno; la riduzione alla casa-canonica da parte di Eva dice non solo di una ferita interiore bensì anche di un disinteresse al mondo. E della decisione, più o meno inconscia, di preparare un nido che sia tela di ragno dove intrappolare la preda. Eva scrive una lettera alla madre invitandola in seguito alla morte del compagno, dopo sette anni di assenza. È letteralmente un'imboscata in cui Charlotte casca dimostrando un'ingenuità che non sospetteremmo in una donna di mondo. C'è inoltre il forte sospetto che Eva si porti in casa la sorella invalida non tanto per poterla accudire ma per fare una prima sorpresa sgradevole alla madre intollerante alle deficienze altrui, per cominciare a minarne l'equilibrio.
Una delle frasi chiave del film recita "non si finisce mai di essere una madre e una figlia": è in questa maledizione ancestrale una condanna a un sadismo incrociato perpetuo che potrebbe essere interrotto soltanto recidendo un cordone ombelicale d'acciaio. Le due donne si rovinano la vita a vicenda, semplicemente esistendo in relazione. Eva è complessata, compressa dall'esuberanza, dalla perfezione materna; Charlotte è disgustata, avvilita dalla mediocrità della figlia. Isolarle in una casa in mezzo ai fiordi equivale a chiudere due belve inferocite in una gabbia e stare a vedere in che modo si sbraneranno. Se la modalità iniziale, coerentemente ai caratteri esibiti, vede nella madre una sprezzante sfida (l'abito rosso) e nella figlia una arrendevolezza tutta passivo-aggressiva, passeremo attraverso tre scene madri (sic) che, come i tre movimenti onirici del progetto iniziale, ridiscuteranno i ruoli secondo lo sviluppo più inevitabile della dinamica servo-padrone, come in Persona, quando si capirà che la figura succube e ferita è nei fatti la più coinvolta, la più spregiudicata e la più determinata alla vendetta.

Ad andare in scena nella casa-nido-tagliola è anche un match in tre round. Il primo lo stravince la madre, che gioca in casa, ovvero al pianoforte. Eva esegue recalcitrando un preludio di Chopin. Nykvist inquadra fisso il viso di Ingrid Bergman sul quale passano risacche di disprezzo, fin anche di rancore, per la mediocrità della figlia che si palesa nell'esecuzione sciatta, nei suoi gesti e sguardi pieni di impaccio e insicurezza. Il suo bisogno patologico di approvazione materna esplode in ansia quando si precipita a chiedere un giudizio mentre ancora l'ultima nota deve spegnersi. È geniale la sottile perfidia con cui Charlotte elude la risposta con un annichilente "mi sei piaciuta tu". Una storia di castrazione - verremo a sapere - cominciata grossomodo poco dopo il parto. Una madre che non ha mai voluto esserlo davvero, che lo è diventata per ripiego rispetto alla sua reale passione, il pianoforte; due figlie che non sarebbero dovute nascere e che pagano il peccato originale. La madre colpisce col giudizio poi mette al tappeto eseguendo a sua volta il pezzo, sottilineando gli errori tecnici e intepretativi di Eva. Eva è stesa, in questo momento è solo vittima, a lei va tutta la nostra compassione. Charlotte ci appare un mostro pieno di fascino ma pur sempre un mostro, moralmente parlando. Alla sfida scritta nel copione si somma la sfida di bravura tra due attrici maestose: mentre Bergman suona, Liv Ullmann si trasfigura, diventa brutta. La bocca si piega verso il basso, spuntano rughe nel doppio ritratto a maschere incrociate trademark bergmaniano che chiude la scena. "Illum oportet crescere, me autem minui" (Gv. 3,30). La madre, come un ragno di Louise Bourgeois, ha fagocitato la preda, ancora una volta l'ha vampirizzata per il suo trionfo.

Tuttavia se leggiamo Sinfonia d'autunno come una telecronaca sportiva, diremmo che ci dirigiamo a un clamoroso ribaltamento del risultato. La notte che, per Bergman, è quasi sempre notte horror comincia con un incubo. Charlotte sogna di venire strangolata da Eva, si sveglia e in preda all'angoscia scende a piano terra per bere un bicchiere d'acqua. Qui trova la vera Eva - si può dire che l'abbia attirata in trappola tramite corpo astrale. La figlia rinfaccia alla madre decenni di sofferenze, la accusa di tutto, prende il ruolo tremendo dell'inquisitore e emette una condanna senza appello: "le persone come te distruggono tutto. Dovresti essere isolata, solo così saresti inoffensiva". Eva ha sempre visto la madre indistruttibile muoversi leggera e trionfante nel mondo. Ora vuole vederla disperata e terrorizzata per goderne sadicamente, rivelando che, dietro alle sue esibizioni di modestia e carità, l'unica passione della sua vita è stata l'invidia, il rancore per l'emulazione impossibile e il bisogno di vendetta. La terribile ferita infantile dell'abbandono materno ha fatto infezione mandando il corpo intero in cancrena. Non c'è salvezza possibile. Come il rapporto padre-figlio de Il posto delle fragole aveva generato il bisogno di sterilità, di interruzione della catena sadica filiale, è inevitabile concludere che il cordone ombelicale finisce sempre per diventare la corda cui ci si impicca. Il secondo round è appannaggio di Eva, sempre più accesa nel ruolo di giudice spietato. Alla fine la madre implora pietà: le viene negata.

Coerentemente alla sua psicologia, alla sua postura esistenziale, Charlotte / Bergman fugge dalla casa degli orrori la mattina successiva relegando immediatamente l'esperienza allucinante a un recesso mnemonico e tornando a prendere treni e progettare tournèe insieme all'impresario. "Mi aspettavo di trovare qualcosa che non esiste": se non altro madre e figlia si sono chiarite le idee, non si rivedranno mai più. Eva / Ullmann, altrettanto coerentemente, torna alle messinscene affettive che non la discutono (es. la cura per il figlio morto) e scrive una lettera piena di affetto e volontà di riconciliazione alla madre, ora che finalmente è chiaro non sarà mai più concretamente nella sua vita. A chi serve? E, concretamente, a cosa? Molti critici hanno visto nel testo della lettera uno salto fideistico di Ingmar Bergman sceneggiatore verso la possibilità dell'amore nonostante tutto. Mi pare piuttosto una ulteriore nota falsa raggelante che certifica il fallimento assoluto dell'incontro reale. È il terzo round, senza vincitrice, tra due donne assolutamente frigide e egoriferite, incapaci di amore reciproco in quanto in grado di intendere l'amore, rispettivamente, solo come ingrediente mondano oppure come messinscena verso fantasmi.
In un film antispettacolare, tutto recitato, come Sinfonia d'autunno è evidente come il valore si trovi soprattutto nella sceneggiatura che, al solito, Bergman Ingmar cesella con assoluta sensibilità e spregiudicatezza, senza farsi impietosire e senza fare sconti, e nelle interpretazioni. Liv Ullmann porta al massimo grado di rarefazione il suo personaggio bergmaniano (cfr. Sussurri e grida) della espansiva emotiva che si rivela la più anaffettiva, la più gelida, virandolo verso il represso; l'ultima prova cinematografica di Ingrid Bergman è uno degli esercizi più trionfali che si ricordino nel rendere affascinante, irresistibile un personaggio che sarebbe sgradevole. In definitiva Sinfonia d'autunno è contemporaneamente uno studio di caratteri, una visione onirica sulla maledizione dei rapporti filiali, una sonata a due strumenti e un match sportivo. E risulta, sotto ognuno dei punti di vista, impeccabile.