SIMBOLI: UNA DIVAGAZIONE

Non mi sento punito ma purificato!

Egon Schiele

    La Natura, quasi nel senso protestante del termine, può essere intesa nell’opera del coreano come predestinazione; anche se di fondo possiede facoltà di scelta (il protagonista rebel di FERRO 3) la sua materia narrativa sembra immancabilmente mossa da mano fatale, che perlomeno ne influenza il cammino (il percorso degli amanti in BAD GUY). Una visione che trova in PRIMAVERA la massima incarnazione; qui la ciclicità dei fatti si strappa la maschera, incorniciata da una scansione tramica sulla ruota delle stagioni (e, per metafora, dell’uomo) sino a rendere evidente il link inizio/fine – facilmente ricollegabile alla figura mitica dell’uroburos, il serpente che morde la propria coda.Così lo spiega Wendy Doniger O’Flaherty: E’ il simbolo dell’infinito spaziale e temporale ma anche del paradosso logico… l’uroburos è il prototipo del circolo vizioso; cos’è più vizioso del mordere sé stessi? Ma questo di fondo è impossibile, la mascella non può divorare la mascella, lo stomaco non può digerire sé stesso.
Dunque inevitabile che le storie di Kim Ki-Duk siano parabole, come una Bibbia scevra da commento morale, dato che il suo universo è un complesso in perenne rotazione destinato a ripetersi n volte; l’impossibilità di “mordere sé stessi”, la ricerca di una catarsi per il dolore intrinseco nell’uomo, è tema portante della sua carriera e principale sorgente della malinconia che permea il narrato.

La Natura è anche contemplazione: ancora una volta in PRIMAVERA – la maggiore “dichiarazione d’intenti”, incarnazione del principio teorico dell’autore – troviamo l’esempio più lampante: attraverso uno sguardo infinito sulla vallata mozzafiato il protagonista ottiene un contatto con l’ambiente. Un ascetismo che si legge in filigrana in altre opere (L’ISOLA), impersonando talvolta la fuga dalla convenzione (il viaggio padre/figlia nel bellissimo finale di SAMARIA); da non dimenticare, infine, che l’uomo per Natura (ancora) è intrinsecamente crudele, condannato a fare il male nonostante lo scampolo di poesia, con almeno un’eccezione significativa (la conciliazione in BIRDCAGE INN). Nella Natura è implicito un secondo apparato simbolico riguardante i suoi abitatori: così il pesce rappresenta la condizione umana in positivo (ancora BIRDCAGE, film salvifico per eccellenza) ma anche in negativo (lo ritroviamo mutilato ne L’ISOLA, speculare alla protagonista); può indicare la vita come il suo rovesciamento, la morte, come viene suggerito dall’esemplare congelato di WILD ANIMALS, o ancora lo scivolamento nella follia (alla stregua dell’acqua) mostrato in THE COAST GUARD. La tartaruga, che attraverso il moto cadenzato richiama alla placidità interiore, viene dipinta da CROCODILE – quando questo conosce una dimensione vagamente umana -, compare nell’incipit di BIRDCAGE e ritorna nell’eremo di PRIMAVERA, dove ogni animale simboleggia una stagione; altre creature bestiali ricorrono nella filmografia di Kim Ki-Duk, dai serpenti assassini di REAL FICTION ai cani di ADDRESS UNKNOWN (emblema di sottile disgrazia: per campare l’uomo uccide il suo miglior amico).
La metropoli è violenta: ma il regista non ripropone affatto il mito del Buon Selvaggio né vuole ricollegarsi ad uno sterile maledettismo letterario. Semplicemente decide di calare nel formicaio urbano la concentrazione del negativo contemporaneo; lo fa attraverso metafore semplici e leggibili, nonché innegabilmente efficaci. Prima scena di REAL FICTION: il pittore è assolutamente silenzioso mentre intorno a lui si svolge un’ininterrotta parlantina. L’accavallamento delle voci, l’inquinamento acustico, il brontolio umano è anch’esso una forma di violenza; se la metropoli è vacua chiacchiera, allora gli uomini di Kim mantengono il silenzio. La borghesia si ritrova perennemente nel mirino, sino alla costruzione di un personaggio estremo che incarna tutte le loro paure: Tae-Suk in FERRO 3 viola i loro santuari, innesca una crisi domestica (il ritorno della famiglia dalle vacanze), suggerisce l’incubo della modella (la scomposizione del corpo), coltiva la fobia del pugile (la sottrazione degli occhi)…
Ogni fragilità e delicatezza del (di questo) mondo trova nella donna il momento più struggente; violata e maltrattata per tutta l’opera del coreano (dal suicidio di CROCODILE alla crudeltà focolare di FERRO 3, passando per la prostituzione di BIRDCAGE e BAD GUY, la mostruosità di ADDRESS UNKNOWN etc.), allo stesso tempo è capace di elargire un sentimento infinito come dolce cucitura delle ferite esistenziali. Talvolta la donna è pazza o vittima di un progressivo impazzimento: L’ISOLA mostra un esemplare già mentalmente compromesso, che introduce ad un amore violento nonché inestinguibile, mentre THE COAST GUARD segue tale processo in fieri. In BAD GUY la follia (da intendersi: deviazione dal binario prestabilito, elaborazione di una nuova forma esistenziale – ed in questo caso amatoria) è progressiva ma inarrestabile come la crescita di una marea; infine si approda in un “nuovo” mo(n)do, dove le categorie di etica e morale sono ormai prosciugate, amare è una faccenda di astrazione onirica.
La violenza, pietra dello scandalo per certa critica occidentale che non l’ha mia compresa appieno, è chiaramente ineliminabile (Io preferisco chiamarla un linguaggio del corpo, dice Kim): la cultura orientale la prevede come forza mistica, è così che il coreano la impegna per definire l’animo dei personaggi, il contesto in cui si muovono, disegnare svolte narrative, ultimamente riproponendola a livello interiore (non una goccia di sangue in FERRO 3, film di somma grazia e dolore). Se volutamente esagerata (le mutilazioni de L’ISOLA) o semplicemente assurda (il pretesto di THE COAST GUARD), non è mai accaduto finora che la violenza fosse gratuita. Il silenzio dominante, cifra distintiva del suo cinema, è così spiegato dallo stesso Kim Ki-Duk: I miei personaggi non parlano perché sono feriti nel profondo (…). Spesso gli viene detto: “Ti amo” ma la persona che lo dice non lo pensa mai veramente; a causa di questo dolore smarriscono fiducia e consapevolezza e smettono di comunicare tra loro.

Il pittore preferito dell’autore è Egon Schiele (1890-1918). In BIRDCAGE INN Jin-Ah si riconosce conNudo femminile con i capelli neri (in piedi) del 1910, un quadro che nel corso della storia porterà sempre con sé; Dun-hwa in BAD GUY sfoglia ripetutamente il catalogo dell’artista, mentre inizialmente in libreria strappava la pagina raffigurante Abbraccio (coppia d’amanti II) del 1917, evidente metafora del rapporto tra i protagonisti. Il tratto nervoso e carnale dell’artista è ispirazione per Kim Ki-Duk anche a livello figurativo: basti vedere la sequenza in cui il protagonista di REAL FICTION (un pittore…) si ricongiunge all’amata, intrigo fisico commovente cui l’aggettivo “schieliano” sembra calzare a perfezione. Anche stavolta, niente di meglio della spiegazione del regista: Ho trascorso due anni come pittore sulle spiagge di Montpellier. Non ho mai avuto un’esposizione ufficiale; dipingevo da solo e mostravo i miei lavori per le strade. Quando ho lavorato a Monaco ho scoperto Egon Schiele; ho scelto i suoi dipinti in BAD GUY perché all’inizio sembrano volgari ed imperniati su soggetti osceni. Ma se li guardi attentamente sono molto onesti: mostrano l’immagine di persone avvolte nel desiderio. All’inizio preferivo Gustav Klimt ma poi, vedendo e rivedendo le opere di Schiele, mi sono diretto su di lui.