Documentario, Recensione

SICKO

Titolo OriginaleSicko
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2007
Durata123'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

“Circa 50 milioni di americani non hanno assicurazione contro le malattie. Pregano tutti i giorni di non ammalarsi, perché 18000 di loro moriranno quest’anno solo perché non sono assicurati. Ma questo film non è su di loro, è sui 250 milioni di americani che come voi hanno una copertura assicurativa. E come voi vivono il sogno americano”.

RECENSIONI

Schierarsi a favore o scagliarsi contro Michael Moore è esattamente la stessa cosa: un segno di ottusità. Persino un cinefilo alle prime armi conosce il suo modo tuonante di fare cinema. Qualcuno l'ha definito guerrilla style e in effetti i tratti della sua scrittura cinematografica sono riconducibili ad una definizione simile: sequenze di forte impatto, una tecnica argomentativa che punta più all'effetto immediato che all'avvicinamento progressivo e ragionato al cuore del problema e un'impressionante disinvoltura nella manipolazione del 'materiale umano' impiegato nei suoi lavori. Di volta in volta cambia la sostanza - le questioni affrontate - ma non la formula cinematografica - il linguaggio adoperato. Anzi, di documentario in documentario sembra che il Moore touch si faccia sempre più solido, granitico, risoluto. È il caso di Sicko, docuguerriglia che attacca frontalmente il sistema sanitario americano, colpevole non soltanto di disinteressarsi di tutti quei cittadini che non possono permettersi le spese di un'assicurazione, ma anche di limitare o addirittura negare le cure mediche agli assicurati, utilizzando ogni cavillo possibile. Unico obiettivo: massimizzare i profitti. Indispensabile sottolineare e tenere conto di un paio di aspetti: in primo luogo Sicko si rivolge direttamente ad un pubblico statunitense (esplicitamente interpellato dal commento di MM nei primissimi minuti del film): lo spettatore modello è insomma uno dei 250 milioni di americani in possesso di una copertura assicurativa. Il secondo aspetto riguarda il modo in cui il progetto è nato. Così MM: 'Credevo che le compagnie di assicurazione sanitaria esistessero per aiutarci. Quindi ho pubblicato un messaggio su internet chiedendo alle persone storie riguardanti problemi con le loro compagnie di assicurazione. Dopo 24 ore avevo ricevuto più di 3700 risposte e alla fine della settimana più di 25000 persone mi avevano scritto le loro storie di orrore sul servizio sanitario'. Un progetto nato e pensato per la base della popolazione, insomma, un progetto generato dall'indignazione per un sistema semplicemente inqualificabile. In questo senso MM la sua battaglia l'ha vinta ampiamente: ha mostrato a quali storture e paradossi conduce un sistema simile e, allo stesso tempo, ha dato voce a decine di persone pesantemente danneggiate dalla avidità delle compagnie assicurative. L'indignazione è un sentimento assai nobile e Moore ce la fa provare ininterrottamente per quaranta minuti: la descrizione della politica economica delle assicurazioni sanitarie mette i brividi ('qualunque pagamento a fronte di una domanda è considerato una perdita medica') e i casi illustrati lasciano letteralmente esterrefatti (l'assicurazione non riconosce il costo del trasporto in ambulanza a una donna che ha avuto un incidente automobilistico 'perché non era stato precedentemente approvato'). Ma il culmine dell'indignazione è raggiunto con l'ascolto del nastro magnetico che documenta l'atto di nascita del sistema sanitario americano, il dialogo del 1971 tra il presidente Richard Nixon e il suo consulente John Ehrlichman, durante il quale l'argomento è affrontato con una leggerezza e una superficialità francamente terrificanti[1]. È senz'altro il momento più delicato e intenso di Sicko, anche perché è la situazione a parlare da sola, è il fatto nudo e crudo a parlare allo spettatore. E con questo arriviamo alle magagne del documentario, dal momento che i restanti 80' non possiedono la stessa vis polemica dei precedenti 40, fatta eccezione per una breve parentesi in cui viene mostrato uno sconcertante 'scaricabarile sanitario': una sequenza nella quale vediamo come alcuni ospedali privati si sbarazzano dei pazienti che non possono pagare le cure, facendoli depositare da taxi davanti ad altre strutture di assistenza. Il che crea situazioni decisamente surreali nelle quali pazienti frastornati (alcuni, pare, con gli aghi delle flebo ancora attaccati al braccio) si aggirano come zombi attorno ai 'punti di scarico'. Sequenza resa ancora più toccante dalle immagini utilizzate: le riprese delle telecamere di sorveglianza.
Ebbene, tranne questa breve parentesi, il resto di Sicko oscilla tra il semplicistico e il lagnoso, impantanandosi spesso e volentieri nel superfluo. Il confronto con altri sistemi sanitari intrinsecamente migliori di quello americano (da quello canadese a quello francese, passando per quello britannico) è talmente manicheo da insospettire anche lo spettatore più mooreiano di questo mondo (non mentite, anche a voi in fondo ha fatto lo stesso effetto), lasciando una netta impressione di smaccato sensazionalismo. Quando azzanna il problema Moore lo sbrana portentosamente, ma quando se ne allontana e argomenta in negativo le sue mascelle si chiudono a vuoto, facendo soltanto un gran baccano. Il gioco di sponda non sembra fare per lui. E come il momento più alto del documentario è rappresentato dalla 'conversazione magnetica' Nixon-Ehrlichman, così quello più basso è rappresentato dalla trasferta cubana. Qui il manicheismo diventa buonismo a tutto tondo, il patetismo raggiunge punte assolute e la retorica assume proporzioni da epos ('Se un nemico può tendere la mano e offrire aiuto, allora che cos'altro è possibile?'). Non aiuta infine il gesto discretamente altruistico di MM che, venuto a sapere dell'imminente chiusura del sito più grande del mondo contro di lui poiché il webmaster non poteva più permettersi di tenerlo aperto (la moglie era malata e non poteva pagare la sua assistenza sanitaria), gli ha mandato in modo anonimo un assegno di 12000 dollari che gli serviva per pagare l'assicurazione e le terapie della moglie. Moore commenta: 'Siamo tutti sulla stessa barca: o nuotiamo o affoghiamo insieme'. Meno male, certe frasi sott'acqua non si sentono.

È un classico. Fino a quando nessuno ti conosce sei un giovane talento sottovalutato che meriterebbe di più, mentre appena la fama ti circonda diventi un nemico da combattere. L’atteggiamento è molto diffuso, soprattutto da parte dell’"intellighenzia" più spocchiosa, ma bisogna riconoscere che il fenomeno Michael Moore ha più di un motivo per essere ridimensionato. Se, per restare alle opere che gli hanno dato il successo internazionale, Bowling a Columbine risultava folgorante e Fahrenheit 9/11 necessario, il nuovo Sicko (slang americano che gioca su "sick", cioè "malato", connotandolo come "deviato", "insano") si deve accontentare di un semplice "con aspetti interessanti". Fedele a una militanza attiva, che lo pone il più delle volte al centro dell'azione, questa volta Moore concentra i suoi sforzi sulla malasanità americana. È da sempre sotto gli occhi di tutti il problema della gestione privata del sistema sanitario negli Stati Uniti, con il grande conflitto tra il bene collettivo e gli interessi economici delle multinazionali assicurative e farmaceutiche. Il documentario di Moore ha il pregio di chiarire certi meccanismi, spesso più vociferati che approfonditi. Ciò che riduce l’impatto della denuncia, però, è la sempre maggiore unilateralità dello sguardo con cui il regista tende a sottovalutare le capacità di discernimento dello spettatore. L’indignazione, infatti, non ha modo di crescere per gradi e spontaneamente, ma viene di continuo imposta e urlata. Altro elemento, già evidente nelle opere precedenti ma in Sicko esasperato, è l’ambiguità con cui i vari casi vengono costruiti, lasciando più di un dubbio sulla loro attendibilità. Soprattutto nella prima parte, infatti, vediamo i reali protagonisti delle vicende, gente qualunque che ha subito soprusi, intenti a recitare il proprio disagio davanti alla macchina da presa. Una famiglia, costretta a vendere la casa per pagare i debiti contratti a causa delle mancate erogazioni delle assicurazioni fiduciosamente sottoscritte, si trova obbligata ad andare a vivere da una delle figlie. Il fatto non viene raccontato, ma mostrato mentre accade, come se si trattasse di un reality e come se la presenza di Moore, impegnato a riprendere la diretta del dramma, fosse invece trasparente. Così come appare un po‘ grossolano il confronto tra la cinica realtà americana e l’assistenza statale garantita in Europa. La Francia pare il paese in cui la qualità della vita è la migliore del mondo, cosa forse in parte anche vera, ma dimostrata perniciosamente. Per dare sostanza alla teoria, infatti, Moore non intervista anche qualche rappresentante della "banlieue" parigina, ma solo un gruppo di allegri borghesi al pub e una famiglia più che benestante che si porta a casa circa 6.500 / 7000 euro al mese. Geniale, poi, ma anche in questo caso costruito più come spot a favore di Fidel Castro e della sua politica che come prospettiva problematica, la conclusione con gli eroici vigili del fuoco, intossicati durante le operazioni di soccorso post 11 settembre, costretti ad andare a Cuba per trovare qualcuno disposto a prendersi cura dei loro problemi di salute. Forzature a parte, che comunque il loro demerito ce l’hanno, il documentario di Moore riesce a porre l’accento su una delle maggiori contraddizioni del più potente paese occidentale con uno stile ironico e accattivante (anche se meno inventivo rispetto alle opere precedenti) e in grado di insinuare dubbi fondamentali. Ciò che convince sempre meno del "Moore touch", e che rende tutto sommato blando l’impatto di Sicko, è la parzialità delle sue valutazioni, ben attente a mostrare solo gli elementi in grado di suffragare la sua tesi. Difficile quindi che il suo film, diretto espressamente a un pubblico americano, convinca chi non è già ideologicamente schierato.

Michael Moore non fa rima con simpatia; sfacciato, politicizzato e fazioso, pronto a sostenere le proprie tesi tendenziose, raccogliere gli allori dei festival e i proventi dei botteghini internazionali, ma non esattamente la stima dei colleghi (Godard: L’industria cinematografica americana ormai non produce immagini, ma testi che vengono chiamati immagini. Moore, che è intelligente a metà, non riesce a capire la differenza che c’è tra l’immagine e il testo). Tra l’altro, il regista si è costruito una cattiva nomea: quando appoggiò apertamente John Kerry alle presidenziali 2004, il candidato democratico conobbe una clamorosa disfatta. A parte gli scherzi, però, Sicko è un altro film di solo testo che esclude l’immagine in partenza e rinuncia volutamente a cercarla; ma non è lecito chiedere il quadro figurativo a Moore, bensì pretendere il punto della questione e l’articolazione del discorso. E’ in questo senso che l’opera appare decisamente più riuscita del precedente Fahrenheit 9/11, una questione personale quanto tediosa tra il documentarista obeso e George W. Bush, ma non tocca la complessa solidità di Bowling a Columbine e i lontani acuti dei lavori migliori (Roger and me resta il mio preferito). Appare fuorviante condannare/esaltare il regista per l’umore che può suscitare, principalmente arbitrario e relegato in una dialettica tutta americana, mentre più stimolante è convogliare sullo specifico filmico: Sicko nella prima parte è un cocktail di disgrazie, un concentrato consapevole di emarginati e disperati che mette il dito nella piaga degli Usa evocando le sue contraddizioni drammatiche. I volti di uomini e donne, vittime kafkiane dell’assistenza sanitaria, si aprono alla lacrima – la cinepresa resta fissa sugli interpellati anche dopo la fine delle deposizioni e ne cattura l’immancabile commozione: ecco il diabolico metodo Moore, che può facilmente irritare o risvegliare sentimenti – ma, a forza di rimestare nell’umido, finisce infine per ottenere il respiro dello spaccato sociale. Il personaggio Moore è favolistico: si presenta in casa della gente, ascolta i racconti dei torti subiti, li espone e prepara la vendetta (ovvero, il film). Se questo Robin Hood è chiaramente inesistente in realtà, il presupposto va considerato basamento del genere cui stiamo assistendo e, solo in quanto tale, legittimato come scheletro del film. Prima che documentario l’opera è reportage e inchiesta oppure, più schiettamente, opinione personale: Moore dice ciò che gli pare e lo fa in maniera legittima. Approvato questo punto, il regista è solitamente a suo agio nell’approcciare questioni minimaliste (i singoli casi degli assicurati danneggiati) e traballa vistosamente quando rispolvera lo sfondo politico (la parte cubana), non riuscendo a trattenere opinioni più o meno inutili e implicite; così il film convince nel confronto paradossale tra Usa e Stati europei, dove il divario sanitario sarebbe esilarante se non fosse tragico, ma perde di interesse navigando a vista nel trito buonismo e nella retorica della facile fratellanza (l’abbraccio tra pompieri cubani e americani) che getta sinistri dubbi sulla propria plausibilità. Tagliando 20/30 minuti di durata, e gran parte del commento del regista, sarebbe stato davvero notevole; ma anche così c’è il retrogusto di un viaggio all’inferno, che di consueto mantiene alto il tono della contestazione alla presunta infrangibilità della comunità occidentale. L’amaro sapore di alcune sequenze agghiaccianti: i degenti che, impossibilitati a pagarsi le cure, sono depositati sul marciapiede; la donna, malata polmonare dopo l’11 settembre, umiliata dal confronto sui prezzi tra Cuba e Stati Uniti; e soprattutto la madre di colore che ricorda la figlia di due anni, deceduta per influenza (!) a causa dell’ennesimo disservizio della maggiore democrazia mondiale.